PALERMO – “Rivoluzione o niente” così risponde alle polemiche Alessandro De Lisi curatore della Fondazione Falcone, “Ci hanno suggerito di andare allo Zen o allo Sperone, ma è nel salotto buono di questa città zombie che vogliamo stare”.
Tuona così De Lisi, in risposta alle polemiche sulla scelta di esporre una grande opera al centro dei Quattro Canti: “Piazza Villena, i Quattro Canti è un parcheggio per monopattini,” continua “questa piazza è il salotto buono della città zombie che accetta si vivere solo di bar e ha lasciato abbandonati i palazzi”.
Al centro della piazza ottagonale, incrocio dei due principali assi viari di Palermo: via Maqueda e il Cassaro, la Fondazione Falcone presenta al pubblico il 20 maggio un’opera d’arte contemporanea per il potenziamento sociale, realizzata da Arcangelo Sassolino.
Perché hai scelto i Quattro Canti per l’ opera di Sassolino?
“Ho il dovere di dire ai miei artisti e alla Fondazione per la quale mi onoro di collaborare di lavorare insieme per produrre lucide utopie dubitative. Ho il dovere di celebrare il dubbio nei ragazzi di oggi che si indignano perché abbiamo messo il cemento ai quattro canti, perché non hanno la forza di alzare lo sguardo dall’altezza del pub e non accorgersi che c’è una città zombie, strade estremamente popolate ad altezza d’uomo ma già dal primo piano sono fantasmi. Ho riflettuto sul fatto che il vero rischio del sistema speculativo mafioso nell’edilizia privata non fa altro che godere dell’alzamento dei prezzi nell’area movida del centro storico, ma in realtà quell’immobile è già abbandonato da tempo e nessuno ha pensato di investire con un sistema politico strategico nei luoghi dell’abbandono e dove c’è l’abbandono la speculazione mafiosa è istantanea. La piazza diventa l’archetipo teatrale dell’ipocrisia di un popolo, l’opera di Sassolino è il tamburo di Palermo“.
La Fondazione Falcone ha scelto così di celebrare il trentennale affidando a De Lisi la narrazione attraverso l’arte contemporanea. Narrazione iniziata lo scorso anno con “La Porta dei Giganti” (ne abbiamo parlato qui) e che prosegue in questi giorni celebrativi con altre installazioni allo Spasimo e alla discussa piazza dei Quattro Canti.
Come il racconto attraverso l’arte contemporanea diventa dinamico e epico?
“Ricordare è nostro dovere, ma è nostro dovere civile ricordare anche che Palermo è stata straordinariamente capace in questi trent’anni di una resurrezione civile. Tanto grande è stato il dolore delle stragi, quanto enorme è stata la reazione della città. Come tutte le grandi reazioni della storia dell’umanità, noi abbiamo un vessillo, una bandiera e questo significa che è principiata una rivoluzione. Rivoluzione che si è rallentata anno dopo anno, a causa del protagonismo solistico di alcuni personaggi“.
Quale è la bandiera?
“La nostra bandiera sono i lenzuoli. Il tricolore è funzionale a farci sentire parte di una comunità nazionale, la bandiera blu con le stelle ci fa essere quello che siamo nel più profondo attuale, cioè europei, ma la bandiera di Palermo sono i lenzuoli”.
Hai parlato di rivoluzione
“Se trent’anni fa sono stati i lenzuoli oggi sono le opere d’arte. Siamo l’unica città in Europa ad avere una propria epica recente, non ce ne sono altre. Palermo è riuscita a costruire un epica attraverso il progetto collettivo dei lenzuoli, perché non c’è ne uno uguale all’altro. L’epica è che noi abbiamo chiesto a Palermo di guardarsi allo specchio, lo specchio della città altro non sono che le espressioni più profonde e concettuali, la più grande azione collettiva è stata quella dell’epoca dei lenzuoli, con questo approccio abbiamo immaginato un progetto di arte contemporanea che partisse da questo principio: Rivoluzione o niente, consapevoli che il rischio è anche niente”.
Murales, grandi opere un linguaggio rivoluzionario per ricordare.
“Abbiamo scelto di non imbiancare i sepolcri, abbiamo colorato la città. Per noi nell’epica mutante, l’arte contemporanea con i murales di grandi dimensioni, gli artisti concettuali, gli scultori del nord Europa fanno di Palermo una città epica che muta“.