Ci sono odori che portano addosso il rammendo di un sogno. Li incontri da bambino. Fanno strada dentro di te. Cresci. E un giorno capisci che l’odore è ancora lì, dove l’avevi lasciato. Roberto Boscaglia, mister del Trapani dei miracoli, si siede nella sala stampa del centro sportivo. Dice: “Amo l’odore del mare”.
Andavamo a Trapani, in terra di conquista, in un tempo antico di amarezze e coraggio rosanero. Il Palermo esiliato giocava al “Provinciale”. Viaggio e panino incorporato. Una domenica qualcuno scagliò un pallone dalla nostra area. Sul limite dell’altra area, Gaetano Musella colpì di testa e mandò un bacio nella rete dell’incrocio dei pali. Ci alzammo di scatto. Ne eravamo certi: non saremmo mai stati più felici di così.
Il Trapani calcio oggi non è più periferia dell’impero pallonaro. C’è uno sforzo di cervello e di cuore dietro la scalata di una matricola che sta tentando il salto in serie B dalla Prima Divisione, dopo una promozione già acquisita per gli annali. Comunque vada, sarà un successo. Da queste parti, venerano Vittorio Morace, il patron, anche lui creatura di mare e di navi. “Il comandante”, lo chiamano. E poi c’è la signora Annemarie, la moglie olandese, che tutti considerano un esperto nocchiero, il valore aggiunto di un tessuto che ha saputo ricostruirsi con criteri imprenditoriali rigorosi.
La speranza va in scena ogni settimana al vecchio “Provinciale”, ormai cadente di spalti e infiammato di passione. C’è un centro sportivo all’avanguardia, il “Roberto Sorrentino”: campi in erba sintetica, spogliatoi e sala stampa. È un gioiellino nella periferia malandata, circondato da casupole, muri scrostati e tetti che stanno su per scommessa. Raccontano: “Qui siamo a Fontanelle. Per azzardare un esempio: è come il vostro Zen. I ragazzini del luogo hanno scoperto il pallone. È un bel modo per tenerli lontani dal marciapiede e da giri strani”. C’è lui: il “piccolo Ferguson”, secondo soprannome. Roberto-Sir Alex Boscaglia, il tecnico che prepara il cervello per arrivare al cuore, con pieni poteri da demiurgo. Chiacchierata nella sala stampa del “Sorrentino”. Intorno al tavolo, i ritratti fotografici della scorsa promozione, in esultanza. Il comandante Morace con Annemarie. Giovanni Guaiana, che difendeva la porta dei granata ed è stato recuperato dal cantuccio polveroso della vecchia gloria, per occuparsi della squadra. C’è Marco Nastasi, il bravissimo preparatore atletico che garantisce benzina per il fiato tutto l’anno. Completano lo staff: il vice Francesco Di Gaetano, Valentino Famà ed Emanuele Lupo. Ci guida Piero Salvo dell’ufficio stampa. “Robbè accomodati”, dicono con una consuetudine a metà tra rispetto e amicizia. Lui, il mister, si siede. E comincia a parlare.
“Ho lavorato per anni in una casa famiglia, a contatto con la sofferenza, e questo aiuta il lato psicologico della preparazione e ti aiuta. Mi piace insegnare ed educare. È una componente essenziale del mio ruolo. È necessario entrare nella mente del calciatore, per abituarlo alla professionalità, all’importanza del dovere. Ho sostenuto un corso impegnativo per diventare operatore sociale. Se non fossi qui, avrei fatto lo psicologo o lo psichiatra. In casa famiglia, ho visto scene che non dimenticherò mai. Ho parlato con persone che avevano tentato il suicidio. Sono pieno di difetti ma conservo un pregio: so ascoltare. I calciatori sono ragazzi normali. È compito della società accompagnarli in un progetto serio. Non è giusto abbandonare i giovani in balia delle onde. Altrimenti, rischiano di perdersi. Ci sono cose che contano moltissimo, soprattutto oltre il nostro mondo. Il pallone non è tutto. La vita fuori da qui è meravigliosa”.
Il mister è immerso nell’aria di Trapani. Quando è libero, gironzola per il centro con i suoi ragazzi. Li vuole integrati. Non desidera che siano un corpo straniero, extracomunitari nell’ambiente che li coccola, che in loro coglie un’occasione di riscatto. “Quello che facciamo ha una grande valenza umana e sociale. Non puoi spiegare a un ragazzino chi era Freud e cosa pensava. Devi immedesimarti nel suo linguaggio e imparare il suo codice. Alla fine, se sei stato bravo, ti farai capire con gli esempi concreti”. Si scende nel sottoscala dell’intimità. “Il mare è l’infinito per me, è la mia casa, è la mia origine. Sono nato a Gela e abitavamo sul lungomare. Quando ero all’Akragas, stavo a Porto Empedocle. Poi, mi sono spostato ad Alcamo Marina. Voglio che il mio balcone sia davanti al mare. Voglio affacciarmi, sentirlo e toccarlo. A Caltanissetta, il mare non c’è. Mi affacciavo al balcone, guardavo le colline. Chiudevo gli occhi e li riaprivo. Immaginavo la distesa d’acqua al posto dei sassi”. Scogli o spiaggia? “Entrambi. Ho notato la differenza tra quelli che vivono sul mare e quelli che, purtroppo, sono costretti a farne a meno. Sarà banale ricordarlo: noi siamo più accoglienti, più aperti e abituati al confronto. Non conosco la diffidenza. Trovo sempre il bene”.
Di Boscaglia si è chiacchierato pure ai piani alti. Cacciatori di taglie e di talenti stanno tenendo d’occhio il tecnico quarantatreenne che modella il suo schema secondo un ordito di passaggi rasoterra e incursioni rapidissime. Facile a scriversi: in epoche di moda “azulgrana”, il riferimento d’oro che viene in soccorso è il Barcellona di Guardiola in sedicesimi. Al confronto, Boscaglia sorride. Gli chiediamo come potrebbe essere questa intervista fra cinque anni, in un altro stadio, in un’altra città, in un’altra categoria. “Io sono me stesso e non cambierò. Credo in un progetto e mi piace seguirlo. A Trapani sto benissimo. Ho quello che mi serve e i risultati contano, ma non rappresentano l’assoluto. C’è la variabile dello sport. Se sei preparato a scuola, affronti il professore senza paura. Se ti prepari benissimo, sul campo, non sarai mai sicuro del risultato. A cominciare dalla porta opposta, ci sono undici uomini preparatissimi, esattamente come te. Preferisco i campionati stranieri. Mi identifico con i coach inglesi. Lì, gli stadi sono pieni, qui sono vuoti. E non è colpa della crisi. Serie A, serie B, o serie minori, non cambia niente. Il regolamento è lo stesso. Le misure pure. E si va undici contro undici”. Lo sosteneva tale Zeman, filosofo socratico.
Piove sul “Sorrentino”. Le gocce lavano via dal muro i segni degli amori del borgo. “Agnese ti amo”, si legge accanto al cancello. La vernice blu è fresca. Cola via dalla parete, parola per parola. L’uomo seduto nella saletta stampa ha alle spalle una carriera di successi. Ha vinto in Eccellenza con l’Alcamo. Ha rivinto con la Nissa ed è arrivato terzo nel campionato successivo. Ha preso per mano il Trapani e l’ha adagiato sui gradoni di un entusiasmo in crescita. Il suo plotone senza timore del professore di turno annovera giovani, vecchie lenze della categoria e talenti sbarcati dal cielo, grazie al portafoglio del presidente. C’è Giacomo Tedesco, un cursus honorum ad altezze diverse, con il numero geometrico e difficile del regista appiccicato alla maglia. “I calciatori hanno l’obbligo del divertimento. Sbagliano, quando si caricano di responsabilità pesanti. I miei sanno che devono amare quello che fanno”.
Scusi, Boscaglia, nel suo piccolo, nella sua zona non vista, qual è il suo segreto?
“Ho avuto un’infanzia felice e non lo dimentico. Studiavo poco e ho iniziato presto col calcio. Ero un centrocampista col dono del gol. Da ragazzino, appena suonava la campanella di scuola, ci precipitavamo sulla spiaggia con un pallone. Partita fino alle cinque, la pausa, un panino preparato dalla mamma e si tornava sulla sabbia, per tirare calci fino al tramonto. Il mio amore per il mare è nato così. Il mio odore preferito è il profumo di iodio che passa per le narici e raggiunge un posto nascosto. Allora scopri che c’è”.
C’è sempre un odore, quando c’è un viaggio, a fare da gomitolo, da filo rosso, da ago che cuce. Il rammendo di un sogno. Questa è la cronaca di una felicità che va oltre la bandierina del calcio d’angolo. È la storia di Roberto che ama il mare e di una città che sta imparando ad amarsi. E se il mare non c’è? Basta chiudere gli occhi. E riaprirli.