Il cronista sa che l’apice insopportabile del dolore è l’arrivo della madre. C’è un corpo disteso da qualche parte, dentro una bara, sul ciglio di una strada, in un maledetto crepaccio afghano. Puoi trattenere le lacrime finché vuoi, puoi nasconderle dietro un paio di occhiali da sole. Ma quando arriva la madre del figlio morto, del corpo straziato e poggiato su qualunque altare, il cuore imbarca acqua.
La madre di Rosario Ponziano, 25 anni, il caporalmaggiore degli alpini morto quattro giorni fa in un incidente tra Herat e Shindad in Afghanistan, non poteva fare eccezione. Durante il rito funebre, officiato dall’arcivescovo di Palermo monsignor Paolo Romeo in cattedrale – come riporta il cronista dell’Ansa – “a tratti si udivano i lamenti della signora Gina, madre del militare: ‘gioia mia… gioia mia, sangue della mia vita… sangue della mia vita’, ha ripetuto la donna con lo sguardo perso nel vuoto; accanto a lei la figlia Maria Concetta, la fidanzata del fratello, Natasha che stringeva al petto un orsacchiotto di peluche e il berretto verde di Rosario. Tra la folla anche il presidente del Senato Renato Schifani, il capo di Stato maggiore dell’Esercito generale di corpo d’armata Giuseppe Vallotto, il sindaco di Palermo Diego Cammarata, il presidente dell’Ars Francesco Cascio”.
Rosario Ponziano del fu Antonino, carabiniere in pensione. Antonino Ponziano, uomo dell’Arma, ucciso da un infarto dieci anni fa. Una storia normale, di normali tragedie, giunta alla ribalta mediatica per le modalità della morte di Rosario. Se questo ragazzo fosse spirato tra le lamiere di un’auto palermitana, sarebbe stato già dimenticato. E certo, Rosario era un eroe. Ma non come vogliono loro, secondo il registro della retorica che colora i drappi istuzionali. Rosario era un eroe per come ha vissuto, anche al netto della sua morte. Perché lo descrivono come un piccolo uomo dolce, capace di prendersi sulle spalle il peso di una famiglia orfana. Perché aveva ereditato il sangue e i principi di un padre galantuomo e di una madre amorevole. Perché è stato il protagonista di una di quelle storie che noi al Sud conosciamo bene. Storie di famiglie che devono sbarcare il lunario. Storie di figli che partono. Per non ritornare.
Il cronista più scafato sa che deve indossare gli occhiali scuri, quando irrompe sulla scena del dolore una madre orfana del figlio. E sa anche che deve serbare affettuosa e commossa gratitudine per quell’urlo che spacca le anime. Perchè è una voce che dissolve l’ipocrisia a vantaggio dell’amore. L’urlo di Gina e di tutte le altre madri del Sud. L’urlo che ci ricorda che l’eroe oscurato dal tricolore era una persona di carne friabile e bellissima. Un bambino nel cuore e nel grembo di sua madre.