“È un anno che siamo ai tavoli sull’autonomia: chi non la vuole premia i politici, i ladri e gli incapaci del Sud che hanno lasciato metà Paese in condizioni di arretratezza, dicendo che era sempre colpa degli altri”.
Benedetto Matteo Salvini, magari non lo farà apposta, ma, quando parla lui, il mondo si spacca in due. Ci sono quelli che lo benedicono perché ha sempre ragione e quelli che non apprezzano (ehm ehm) perché ha sempre torto.
Per esempio, questa frase – chissà se diramata, in forma di dispaccio, dalla sede ministeriale distaccata del Papeete Beach o da altrove – è stata subito commentata sul web con accenti irriducibili. Ragione splendente, o torto contundente. Non si scappa: madamina, il catalogo è questo. E pazienza se, in ogni caso, talune ruvidezze linguistiche e concettuali, di cui si ha notizia, mal si sposerebbero con il profilo di un uomo di governo.
Comunque, dialetticamente, ci si affronta all’ultimo post. C’è chi dice che l’onnipresente Matteo sia nel giusto perché è vero che al Sud ci sono incapaci patentati e contenti di esserlo (non tutti, ovviamente, il riferimento è in sovrabbondanza ai politici) che bloccano lo sviluppo, mentre altri prendono la sua esternazione alla stregua di una parola d’ordine implicita, espressa in modo sibillino: basta con i migranti ora tocca ai ‘terroni’. E in effetti un filino di sospetto per uno che è pur sempre della Lega ci sta, è naturale nutrirlo, quali che siano l’intenzione e gli effetti del dettato. Mica abbiamo dimenticato certi rigurgiti, certi erutti e certe grida di battaglia nello stile ‘celodurista’ del Carroccio.
Il dibattito è spalancato più che aperto. Che una autocritica sia necessaria, nessuno può negarlo. Sì, Garibaldi, i Savoia, tutto quello che vogliamo e che come si vuole può essere narrato. Ma che, per esempio, la Sicilia (che è il Sud del Sud, fino a prova contraria) condensi un simbolo di complessivo di mal-governo e di magra-vita è un accusa difficilmente smentibile. Da anni ci lamentiamo, da anni invochiamo una svolta, per tornare a lamentarci del presente che si trasformerà in passato da non rimpiangere.
O siamo solo capaci di piangerci addosso senza rimboccarci le maniche, o votiamo immancabilmente male, scegliendo una classe dirigente che, generalizzando, per carità, è lo specchio di un’ignavia che riguarda tutti. Una suggestione si staglia e qui Salvini fa gol: sovente diamo la colpa agli altri, siamo irresponsabili per definizione.
D’altro canto, resiste quel filino di sospetto che interpreta l’autonomia come il nome cortese di una scissione di fatto: se metti la tartaruga e la lepre – la tartaruga tenuta nelle retrovie, la lepre leggera e scattante – a correre insieme, appena appena nei miti la prima batterà la seconda. Perciò, cresce il timore che si voglia spezzettare il Paese, condannando alla povertà e all’emarginazione i poveri e gli emarginati, privati di una visione solidale e unitaria. Il meccanismo sarebbe quello classico dei professionisti del rancore che individua colpe, perfino presunte, ed emette crudeli sentenze.
Ed è allora che si palesa un miraggio tragico e per nulla improbabile: noi terroni di domani come i migranti di oggi, deumanizzati da una grossolana voce pubblica. Non più persone, ma vuoti a perdere in un contesto che non prevede i legami antichi dell’umanità. Ognuno affondi con il suo barcone. I dati Svimez, per chi li ha letti, non sono già una tromba del giudizio? Chi potrebbe accettare un simile destino, in fase di compimento, che sarebbe iniquo per chiunque, essendo l’iniquità il lume spento dei nostri tempi? E chi non avrebbe l’occasione di additare una politica nazionale che del Meridione se ne lava le mani, per infilzarlo con il forcone di una brutta retorica?
In mezzo al dilemma c’è lui, Matteo Salvini, con la sua capacità politicamente cannibale di divorare i consensi provocati a tavolino da una spaccatura netta. Ma forse, a prescindere dal rancore, noi siciliani dovremmo guardarci un po’ in faccia. E provare finalmente a cambiare qualcosa.