CATANIA – Sono condanne pesanti quelle richieste dalla magistratura nei confronti degli imputati del processo scaturito dalla maxi inchiesta sulla mafia di Vizzini. L’indagine ha permesso di fotografare gli assetti criminali del territorio calatino. Le accuse sono di associazione mafiosa, traffico e spaccio di droga aggravati dal metodo mafioso. Si tratta, secondo la ricostruzione degli inquirenti, di affiliati al gruppo del boss Michele D’Avola, detto u cuccarinu, operativo a Vizzini (Catania) e Francofonte (Siracusa) e legato ai clan mafiosi Santapaola-Ercolano e Nardo. Il pm nel corso dell’ultima udienza ha avanzato nei loro confronti richieste di pena che variano dai sei a 20 anni.
In particolare, l’inchiesta aveva preso le mosse dalla guerra di mafia avvenuta nel calatino fra il 2012 e il 2013. A distanza di poco tempo l’uno dall’altro si registrano, infatti, quattro omicidi e due tentati omicidi “in danno a soggetti collegati, a vario titolo, a gruppi ben inseriti nel tessuto criminale della zona”, dice il pm nella sua requisitoria. La faida sanguinaria al centro del processo si consuma, infatti, proprio tra Vizzini, Francofonte, Grammichele e Mineo, fazzoletti dell’entroterra posizionati in mezzo alle provincie di Siracusa e Catania e pertanto particolarmente soggette alle influenze delle cosche catanesi e di Lentini con i Nardo.
LA CRUENTA FAIDA – Il primo omicidio risale al 3 marzo del 2013, quando nelle campagne di Mineo viene rinvenuto il corpo carbonizzato di Michele Ragusa, che risultava scomparso dal mese di novembre dell’anno precedente. La vittima era il cugino di Francesco Paolo Ragusa, detto “Ciccio Pagghiazzu”, persona più volte indicata da diversi pentiti quale esponente di vertice del gruppo di Grammichele. Pochi giorni dopo, il 13 marzo, viene ucciso Gregorio Busacca con diversi colpi d’arma da fuoco sul piazzale antistante la propria abitazione a Vizzini. Nei confronti di Busacca era stata emessa una condanna per estorsione, mai espiata proprio a causa della sua morte. La lunga scia di sangue prosegue con Michele Coppoletta, vittima di lupara bianca. Alle spalle aveva diverse condanne per estorsione, usura, traffico di droga e armi. Il 9 marzo muore anche Signorino Foti, trucidato con diversi colpi di arma da fuoco esplosi da un fucile cal.12. Stava percorrendo con la propria auto una strada fuori dal centro abitato di Vizzini.
Tale raffica di omicidi e le modalità con cui si sono consumati sono sin da subito per gli inquirenti il segno tangibile di una guerra in atto fra clan. Stando alle ipotesi della magistratura, a Vizzini c’era, infatti, la base del gruppo dedito al traffico ed allo spaccio di grosse quantità di sostanze stupefacenti provenienti dall’Albania e rivendute nelle province di Catania, Siracusa e Ragusa.
L’INCHIESTA E LE INTERCETTAZIONI – Allo scattare delle indagini gli investigatori si concentrano immediatamente sulla figura di Michele D’Avola, ritenuto il boss del calatino. A confermare il ruolo di vertice ricoperto da u cuccarinu era stato anche il pentito Paolo Mirabile nel corso di alcuni interrogatori. La requisitoria del pm è, infatti, un pesante faldone che scava nel passato ripercorrendo anni cruenti con pagine e pagine di interrogatori e intercettazioni.
I terribili fatti di sangue vengono, allora, immediatamente collegati proprio all’arresto del boss avvenuto nel dicembre del 2012 nell’ambito dell’operazione denominata “Blackout”. La detenzione di D’Avola, avrebbe, infatti, fatto vacillare gli equilibri interni al gruppo. Il clan di Francofonte si ritrova improvvisamente senza più un capo. Nascono presto così i primi contrasti fra i picciotti che iniziano a litigare per la gestione delle piazze di spaccio del calatino e soprattutto per la spartizione dei proventi. Le prime tensioni sfociano nell’omicidio di Gregorio Busacca, uomo di fiducia di Michele D’Avola. Per l’accusa, le cause di tali conflitti emergono chiaramente dal contenuto di un’intercettazione di un colloquio in carcere intercorso fra Michele e il fratello Vito, durante il quale, lo stesso Vito, afferma che quei fatti di sangue negli ultimi tempi si erano verificati solo perché Michele era detenuto e, quindi, in assenza del loro capo, (la chioccia) i giovani avevano perso la bussola: “…quando c’è una “chioccia ” che tiene tutti i pulcini vicini… allora si va bene, come la “chioccia li lascia perdere, minchia, vedi come sono scappati”. Ma la morte di Busacca crea ulteriori tensioni all’interno del gruppo di Michele D’ Avola, tanto che altri due gregari, Orazio Lucifora e Alfio Centocinque, subito dopo l’ omicidio, meditano di vendicare la morte del braccio destro del boss: “ce la vediamo noialtri, ce la vediamo noialtri o ce li portano loro… gli schiaccio la testa! Bastardi! Per una cosa del genere”.
Ma non solo. A minacciare gli equilibri, già precari, del gruppo contribuiscono le ambizioni di Salvatore Navanteri. All’epoca era sorvegliato speciale con alle spalle diversi precedenti penali. Ma era soprattutto un elemento di spicco dell’omonima famiglia mafiosa di Francofonte, capeggiata dal padre Giovanni. Nel 2012, pochi mesi dopo la cattura di D’Avola, Salvatore decide di approfittare dell’assenza del boss per tentare la scalata e diventare il nuovo capo del clan. Per farlo raduna a sé diversi uomini. Ma il suo piano fallisce perché a fermarlo sono proprio i fedelissimi del boss D’Avola. Secondo l’accusa, u cuccarinu nonostante si trovasse rinchiuso in carcere non smetteva, infatti, d’impartire ordini ai suoi affiliati. Alla fine, gli scontri fra Salvatore e i sodali di D’Avola culminano con il tentato omicidio del primo. Navanteri viene preso a colpi di fucilate mentre fa rientro nella sua abitazione a Francofonte. Scampa all’agguato ma rimane gravemente ferito.
Dall’inchiesta emerge, inoltre, che la faida interna al gruppo di Michele D’avola vede contrapposti da un lato Gregorio Busacca e Alfio Centocinque dall’altro Gianluca Giarrusso “u pirucchiusu”, (figlioccio per altro di Michele D’avola) e Salvatore Guzzardi. L’accusa si sofferma, infatti, sulle figure di alcuni degli imputati. Fra cui quella di Giarrusso, appunto, uno degli organici del gruppo capeggiato dal boss D’Avola e della sua convivente Carmela Quaderno. Proprio per il primo, u piricchiusu, il pm richiede la condanna più pesante di 20 anni.
Ecco le altre richieste di pena: Erson Zhuka e Orazio Lucifora, 18 anni; Baja Ermir, Sandro Burgio, Giovanni Costantino, Gesualdo Lo Presti, Massimiliano Lo Presti, 12 anni; Gianni Dorata, Vincenzo Nasca, Giuseppe Prossimo e Giovanni Costantino, 8 anni e 4 mesi; Salvatore Lucifora, Maurizio Muscatello, Ivan Sebastiano Zuccarello, 6 anni di reclusione; Enzo Di Benedetto, Daniele Liggieri, Sebastiano Zappulla, 6 anni; Francesco Interligi, 8 anni; ; Carmela Quaderno, 6 anni.