di FRANCO NICASTRO (ANSA)
PALERMO – L’esordio ha un taglio neutro. Il pg Roberto Scarpinato parla di “nuove prove” per chiedere in appello la riapertura a tutto campo del processo al generale Mario Mori e al suo braccio destro Mauro Obinu, assolti in primo grado per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Ma l’elenco dei testi, dei collaboratori, dei documenti anche “classificati” di cui l’accusa chiede l’acquisizione apre uno scenario inedito e fosco. La semplice elencazione dei temi – la P2, l’eversione nera, le stragi del 1992-93, i depistaggi, la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, l’attentato all’Addaura a Giovanni Falcone – mette a fuoco la figura di Mori come quella di un “grande vecchio” al centro di trame vecchie e nuove. “Mi sembra un tentativo di rivisitare la storia d’Italia degli ultimi 40 anni” commenta lapidario uno dei difensori, Enzo Musco. E in effetti sotto la lente d’ingrandimento dell’accusa finisce tutta la carriera di Mori, dentro e fuori i servizi, che Scarpinato tratteggia con immagini molto forti. A suo giudizio, Mori avrebbe mantenuto sempre un “modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete”, “disatteso i doveri istituzionali”, trasgredito i “doveri di lealtà istituzionale nei confronti della magistratura”, costruito anonimi e bugie, intercettato i superiori, omesso di riferire la verità o avallato la “rappresentazione di versioni false degli avvenimenti”.
A sostegno di queste tesi, che nella seconda parte sono state sviluppate dal pg Luigi Patronaggio, l’accusa mette insieme sentenze, documenti riservati, testimonianze di altri investigatori tra cui diversi colleghi di Mori, le dichiarazioni di dodici pentiti – da Gaspare Spatuzza a Giovanni Brusca – e carte che compongono ben 13 faldoni portati con un carrello nell’aula della corte d’appello nel complesso di Pagliarelli. In una nuova prospettiva processuale, la Procura generale propone un allargamento dell’orizzonte processuale attraverso la rilettura di alcune storie: non solo i rapporti tra servizi e gruppi eversivi ma anche scelte investigative che mettono sotto accusa l’operato di Mori. Scarpinato segnala il “notevolissimo ritardo” con cui vennero utilizzate le confidenze di Luigi Ilardo, poi ucciso, sul covo di Provenzano e cita come “precedente” un’improvvida e spettacolare operazione del Ros che nel 1993 consentì al boss catanese Nitto Santapaola di allontanarsi indisturbato dal covo di Terme Vigliatore, nel Messinese. In quella occasione per mettere sull’avviso il boss si fece ricorso anche a una “pretestuosa sparatoria”.
Altre ombre vengono rovesciate sulla figura di Mori nel caso dell’attentato nella villa dell’Addaura a Giovanni Falcone, quando l’ex capo del Ros avrebbe avvalorato la tesi riduttiva di un “atto dimostrativo”, oppure nella gestione riservata di informazioni. Anche questa è una storia opaca che l’accusa ricostruisce attraverso un documento, depositato nei giorni scorsi, sul cosiddetto “protocollo farfalla” del 2004: un accordo tra Mori capo del Sisde e Giovanni Tinebra, dirigente del Dap, per un uso riservato delle informazioni sui detenuti che metteva fuori gioco i magistrati. Queste sono le “nuove prove”, a volte accostate a fatti molto noti, che la Procura generale riversa su Mori nel tentativo di ribaltare la sentenza di primo grado. Fra un mese, il 27 ottobre, la replica della difesa che già annuncia di volere smontare punto per punto la nuova impalcatura dell’accusa.