ROMA – “Nessun patto con la mafia. Fu la Prima Repubblica, quella che Di Maio dice sepolta dalla sentenza sulla trattativa Stato-mafia, a gettare le basi legislative dei successi contro i mafiosi”. Lo dice al Messaggero, dopo la sentenza di Palermo sulla trattativa stato-mafia, Enzo Scotti, ministro dell’Interno fra l’ottobre 1990 e il giugno ’92. Alla domanda su quando ebbe sentore che invece qualcuno voleva trattare, Scotti risponde netto: “Mai finché ci sono stato io. Il punto forte della strategia antimafia fu la rottura di ogni contiguità o debolezza verso la mafia, il contrasto a 360 gradi del potere mafioso. Le misure che prendemmo andavano tutte in quella direzione, per esempio lo scioglimento dei Consigli comunali per un’ infiltrazione e condizionamento dell’ attività degli organi democratici”. “Dissi già allora – ricorda quindi Scotti – che mi sembrava strano cambiare il responsabile dell’ Interno dopo la strage di Capaci. Io avevo messo in guardia la Commissione parlamentare antimafia, a marzo dopo l’ uccisione di Lima, sul rischio di stragi. Dichiarai lo stato d’ allerta. Non ebbi la benevolenza di alcuno, né in Parlamento né sulla stampa. Sembrava dovessi vergognarmi di avere evocato pericoli inesistenti, patacche”. “Della Prima Repubblica – osserva quindi Scotti dopo il commento di di Maio secondo cui la sentenza di Palermo seppellisce la Prima repubblica – fanno parte anche quei due anni che hanno prodotto gli strumenti che hanno consentito alla magistratura di fare passi molto forti contro la mafia. Penso alle misure sul patrimonio e ad altre che furono contrastate non solo dai fautori del lassismo ma da persone che non ci aspettavamo. Penso alle polemiche sulla creazione di Dia e Dna, sui collaboratori di giustizia… Contro Falcone, sulla Dna, ci fu un’ ostilità diffusa dentro la stessa magistratura. I giudici di Palermo contestarono al ministero della Giustizia quella linea. Sul decreto dell’ 8 giugno 92 fu espresso al Senato un voto di incostituzionalità”.
(ANSA)