C’è un protagonista “indiretto” della presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra che recentemente è stato interrogato dai magistrati palermitani titolari del fascicolo. È Vincenzo Scotti, uomo della Dc che negli ultimi due governi Andreotti, dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992, ha ricoperto la delicatissima poltrona del ministero degli Interni. Ai pm Ingroia, Di Matteo, Guido e Sava, lo scorso 5 dicembre, Scotti ha parlato di quel periodo, sotto molti aspetti, ancora oggi misterioso, rivelando, inoltre un particolare inedito. Nel pieno di quei giorni roventi, Scotti ha subito per due volte un tentativo di furto nella sua abitazione. Ma nulla di valore è stato toccato, i ladri hanno solo rovistato fra le carte del ministro. Un episodio che Scotti ha comunicato immediatamente al capo della polizia, Vincenzo Parisi che, “dopo aver provveduto ai primi accertamenti – si legge nel verbale riassuntivo – mi consigliò di non sporgere formale denuncia, che, effettivamente non presentai”.
Un avvenimento strano, perché il capo della polizia induce un ministro a non denunciare le intrusioni a casa sua, si chiedono oggi gli inquirenti. Una vicenda che va contestualizzata con tutto quanto si è mosso attorno all’ex ministro degli Interni in quel periodo e che Scotti ricostruisce di fronte ai pm.
A cominciare dalle due diverse linee politiche nell’affrontare la questione mafia. “Quella più rigorosa, che io stesso incarnavo – racconta Scotti – particolarmente attenta a una vera e propria strategia di guerra senza condizioni contro la mafia e quella che, pur volendo contrastare la mafia, si dimostrava più prudente rispetto a certi argomenti ed a talune iniziative, ritenute troppo forti, che da ministro dell’Interno avevo adottato”. Provvedimenti come l’istituzione del 41 bis, “frutto della piena collaborazione fra il ministero dell’Interno e quello della Giustizia, anche in esito a riunioni congiunte che prendevano spunto da suggerimenti che Giovanni Falcone aveva esternato prima di essere ucciso”. E, in particolare, dopo l’approvazione del decreto “si percepiva un clima politico di progressivo mio isolamento”. Un’operazione che, però, era iniziata prima, subito dopo l’omicidio di Salvo Lima.
Scotti, infatti, è stato promotore di alcune circolari circa possibili “piani di destabilizzazione delle istituzioni e attentati a esponenti politici”. C’era un “reale e immanente pericolo” dice Scotti. “Esistevano alcune specifiche note dei servizi e del dipartimento di polizia che facevano riferimento al pericolo di attentati , organizzati dalla mafia , nei confronti di esponenti politici tra i quali il presidente del Consigio (Andreotti, ndr) e i ministri Mannino e Vizzini”. Dopo la diffusione delle circolari, fra il 15 e il 20 marzo 1992, Scotti è stato anche sentito dalle commissioni Antimafia, Affari costituzionali e Interni, nonché dal comitato parlamentare di vigilanza sui servizi di sicurezza. Il risultato? “Si scatenò nei miei confronti un vero e proprio putiferio. Anche altri componenti del governo presero le distanze dalle mie iniziative e dalle mie dichiarazioni che vennero ritenute eccessivamente allarmanti”. A cominciare dal premier, “Andreotti definì una ‘patacca’ gli allarmi che avevo lanciato”. Ed è in questo periodo che Scotti subisce le due intrusioni a casa sua che Vincenzo Parisi gli consiglia di non denunciare. “Nei mesi successivi all’omicidio Lima – continua Scotti – non ebbi occasione di approfondire particolarmente con il ministro Mannino le notizie circa possibili attentati nei suoi confronti. Certo è che si percepiva chiaramente la sua paura e ciò, in particolare, dopo l’uccisione di Giovanni Falcone”.
“Non ho mai compreso i motivi per i quali alla fine di giugno del 1992 venni designato dal presidente del Consiglio (Giuliano Amato) come ministro degli Esteri – spiega Scotti – Ritenevo fondamentale, per una esigenza di continuità nell’impegno del governo contro la criminalità organizzata, la mia conferma nel ruolo di ministro dell’Interno che avevo ricoperto fino a poco prima”. La direzione della Dc, proprio il giorno prima della formazione del governo Amato, aveva previsto l’incompatibilità fra la carica di deputato e quella di ministro. “Io feci sapere che mi sarei posto il problema solo dopo l’eventuale designazione come ministro e davo per scontata la mia conferma al Viminale”. Ma “il giorno dopo appresi di essere stato nominato ministro degli Esteri”. Un incarico dal quale Scotti si è dimesso immediatamente. La notte stessa della nomina aveva ricevuto una chiamata da Ciriaco De Mita che gli proponeva la Farnesina e Scotti aveva rifiutato. “Non ho mai avuto convincenti spiegazioni” conclude Scotti che lasciare il posto a Nicola Mancino e manderà un’accorata lettera all’allora segretario della Dc, Arnaldo Forlani, mentre ne riceverà un’altra dal capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, in cui c’è scritto: “Se ci fossimo parlati, forse le cose sarebbero andate diversamente”.