Se Tafazzi canta "Ciuri ciuri..." - Live Sicilia

Se Tafazzi canta “Ciuri ciuri…”

Non mi sono ormai adattato alla squallida realtà; anzi, odio il modo di essere di questa città. O meglio dei suoi abitanti pro-tempore. Ma comincio a pensare, giunto alla mia età, a chi verrà dopo.

Alcuni anni fa Giacomino Poretti portò alla ribalta il personaggio di Tafazzi, un surreale individuo in calzamaglia nera che, al suono di un coretto da stadio usurpato al popolo ebraico, si esprime battendosi con una bottiglia di plastica vuota una zona sensibile protetta da un sospensorio bianco. La popolarità raggiunta dal personaggio, che a dire del suo stesso ideatore rappresentava “lo zero comico assoluto”, ha portato alla creazione del neologismo “tafazzismo”, un sinonimo di “masochismo” che indica l’atteggiamento di coloro che godono infliggendosi una pratica dolorosa. Dal 1995 il Tafazzi è persino entrato nella letteratura medica: accadde quando, volendo ironizzare sull’immane sforzo profuso per identificarle, la genetista Silvia Bione e collaboratori battezzarono “tafazzine” le proteine dalle cui anomalie dipende la rara “sindrome di Barth”.

La letteratura digitale locale pullula di articoli che, attraverso la descrizione delle tante cose che non vanno a Palermo, mi evocano l’immagine del Tafazzi. E i numerosi commenti a supporto confermano la diffusione pandemica del tafazzismo al suono di “Ciuri ciuri”. Il contagio del tafazzismo si alimenta dell’atavico godimento che proviamo noi siciliani nel crogiolarci nei nostri difetti e in quel fatalismo gattopardesco che, negando ogni speranza per il futuro, fa ancor più male delle amarissime e ineccepibili constatazioni sul presente. Siamo pieni di testimonianze, più o meno forbite, sul “ciaffico” e sulla “munnizza”, sui posteggiatori abusivi e sulle “buttane”, sulle cacche dei cani e sui lavavetri agli incroci, sul sindaco cool e su quello che “lo sa fare”. Tralasciando sistematicamente atti di solidarietà di cui questa città, vivaddio, è capacissima, ci piangiamo addosso ripetendoci l’un l’altro di quanto difficile sia il vivere quotidiano a Palermo. E facciamo finta di ignorare che i colpevoli principali di cotanto scempio siamo proprio noi che passiamo la vita a lamentarcene. E’ come se in un processo penale la figura del testimone d’accusa o del giudice inflessibile coincidessero con quella dell’imputato colto in flagranza.

Non mi sono ormai adattato alla squallida realtà; anzi, odio il modo di essere di questa città. O meglio dei suoi abitanti pro-tempore. Ma comincio a pensare, giunto alla mia età, a chi verrà dopo. Ho scelto di tornare dagli Stati Uniti circa 30 anni fa e non me ne sono pentito, anche se talvolta ho pensato a me stesso come a un Tafazzi con la calzamaglia nera e la bottiglia in mano. E’ successo ai primi tempi dopo il “nostos” quando scoprii la mia intolleranza verso quello che era stato il mio standard di guida fino a pochi anni prima e che si era ormai a me svelato per ciò che era: un concentrato di tracotanza e incivile individualismo. Non sopportavo i salti di corsia, la libera interpretazione degli “stop” o del diritto di precedenza, l’uso delle quattro frecce che in tutto il mondo indica “fermata d’emergenza” e qui “fermata dove piace a me e guai se protesti”. Non capivo perché, abituato alla vista dei ragazzini che raccattavano per strada lattine vuote da portare ai centri di raccolta dei supermercati a 5 centesimi ciascuna, non si potesse far lo stesso anche da noi. Quante volte ho pensato: “Ma chi me lo ha fatto fare ?”. Ma poi guardo Palermo e la trovo splendida. E se oggi è diventata “orrida” (per usare un aggettivo recente) la colpa è solo di noi palermitani. Ci lamentiamo della munnizza, ma chi è che ne dispone come crede ? Ci lamentiamo del traffico, ma chi prende l’auto pure per fare cento metri ? E chi, di grazia, dovrebbe agire per cambiare Palermo, se non chi ci vive da inquilino temporaneo ? Chi dovrebbe amarla e conservarla per sé e per i propri figli, magari impiegando un decimo del tempo che spreca a lamentarsi per cambiarla nella speranza di lasciarla un po’ meglio di come l’ha ricevuta.

Forse, come disse il grande Sciascia, questa città è “irredimibile” e io sono solo lo stolto che fissa il dito mentre i tanti saggi che la popolano indicano la luna. Ma invece io mi domando quale originalità ci sia nel dire sempre le stesse cose. Quale costrutto in assenza di proposta. Non tollero più questo nostro eterno “annacamento”, un termine che esprime appieno la nostra sublime capacità di agitarci senza spostarci. Quando si tocca il fondo ci sono due opzioni: o si risale o si comincia a scavare. Ebbene, una bottiglia di plastica vuota sbattuta continuamente sulle palle non aiuta ad andare né in un senso, né nell’altro. Perché con la bottiglia del Tafazzi in mano non si vola in alto e non si scava. E soprattutto, a pensarci bene, non ci si fa neppure male sul serio.

Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI