13 Aprile 2021, 06:01
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PALERMO – Gaetano Fontana ammette di essere stato un mafioso, ma nega che lo sia ancora oggi. Ecco perché si disputa una sorta di braccio di ferro con la Procura di Palermo che al momento non lo considera un collaboratore di giustizia. Pentito vero o bluff? Nel frattempo si auto accusa di un omicidio e interviene su uno dei grandi misteri italiani, quello legato al fallito attentato all’Addaura in cui doveva morire Giovanni Falcone.
Ci sono però delle dichiarazioni del 6 aprile scorso che potrebbero mostrare i segni di una possibile e reale apertura. Un’apertura che lo scorso ottobre non era stata ravvisata dal giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini che lo interrogò nel giorno del nuovo arresto.
Le sue parole restano agli atti e qualora venissero giudicate attendibili sarebbero dirompenti. Fontana racconta di essere stato un mafioso dal 1990 al 1997, ma ora “non faccio parte di nessun contesto mafioso”. Come se ad un certo punto si potesse scegliere di uscire da Cosa Nostra.
Fontana ammette di godere dei soldi del padre Stefano, ormai deceduto, grazie al quale ha aperto delle attività. Del padre, che all’Acquasanta è stato un pezzo grosso, ricorda il suo rifiuto, nel 2007, all’invito dei Lo Piccolo di San Lorenzo di “formare una famiglia mafiosa”.
Gaetano Fontana conferma un episodio raccontato nel 2018 da uno a cui la credibilità di collaboratore è stata pienamente riconosciuta. Sergio Macaluso di Resuttana disse che Giovanni Fontana, fratello di Gaetano, ha rischiato di essere ammazzato. Si era deciso di coinvolgere Vincenzo Di Maio, settantenne e influente mafioso dell’Acquasanta. Di mezzo c’era una somma di denaro che Fontana riteneva fosse di suo padre e ne pretendeva la restituzione.
“Mio fratello ha avuto un attrito con Vincenzo Di Maio che in quel momento per quello che io ne sappia era il reggente la famiglia dell’Acquasanta – spiega Fontana – che ha chiamato mio fratello per farsi dire qual è il motivo per cui mio fratello voleva recuperare questi soldi… ci fu pure che Di Maio invita mio fratello a fare parte della famiglia di Resuttana per poter condividere le decisioni insieme con mio fratello. Io so per certo che gli sbatte la porta in faccia, a noi di queste cose non ci interessa più niente… successivamente ho saputo che per questo motivo mio fratello Giovanni doveva essere ucciso da un certo Macaluso per conto di Vito Galatolo, di Vincenzo Graziano e di Di Maio Vincenzo. Mio fratello – ripete – doveva essere ucciso perché gli ho sbattuto la porta in faccia a Vincenzo Di Maio e per non avergli detto quelli che erano gli interessi economici di papà in zona”. Quindi neppure Giovanni Fontana, uomo del business degli orologi di lusso a Milano avrebbe a che fare con la mafia.
Ma non era l’unico motivo, c’erano pure “le questioni che mio fratello ha avuto con un certo Graziano nipote di Vincenzo Graziano… è un ragazzo di strada molto litigioso. Mio fratello ha malmenato malamente a Santino Graziano e diventa una faccenda di mafia perché è il nipote di Vincenzo Graziano”.
Fontana ha 45 anni, ma compariva per la prima volta nelle cronache giudiziarie quando non era ancora maggiorenne, accusato dell’omicidio avvenuto nel 1992 di un piccolo spacciatore, Francesco Paolo Gaeta. La storia dell’allora sedicenne si intrecciava con uno dei grandi misteri italiani: il fallito attentato all’Addaura ai danni del giudice Falcone. Sul punto le dichiarazioni di Fontana, se riscontrate, potrebbero chiudere un capitolo del mistero. Innanzitutto si auto accusa di avere partecipato all’omicidio per cui è stato assolto.
Il 21 giugno del 1989 un commando a bordo di un gommone si avvicinò via mare alla villa che ospitava il magistrato insieme alla collega svizzera Carla Del Ponte. Fecero degli errori e furono costretti a battere velocemente in ritirata abbandonando sugli scogli un borsone pieno esplosivo. Si lanciarono in mare, fingendosi sub.
La storia si faceva misteriosa: qualcuno avrebbe riconosciuto in Angelo Galatolo, boss dell’Acquasanta, uno dei membri del commando incaricato da Totò Riina di fare saltare in aria Falcone. Quel testimone era proprio Francesco Paolo Gaeta, tossicodipendente e spacciatore della borgata palermitana che stava facendo il bagno poco distante. Per anni la vicenda rimase oscura, fino a quando si pentì un altro dei Fontana, anche lui di nome Angelo, è lo zio di Gaetano.
Si autoaccusò dell’omicidio di Gaeta e fu condannato all’ergastolo: non fu un banale regolamento di conti nel sottobosco dello spaccio, ma qualcosa di molto più serio. Per quel delitto in primo grado era stato condannato a sette anni anche Gaetano Fontana, ma in appello fu assolto.
“Sì, ho commesso fatti di sangue – racconta a ottobre Gaetano Fontana – ho commesso un omicidio insieme a mio zio Angelo Fontana nel 1992, l’omicidio di Francesco Paolo Gaeta”. Ma il fallito attentato all’Addaura nulla c’entrerebbe: “Gaeta è il pusher personale di Angelo Fontana… gli ha consegnato la dose e Fontana Angelo si è sentito male e il pusher spaventandosi glielo andò a raccontare a Gaetano Galatolo che è lo zio di Angelo Fontana. E succede che Fontana Angelo si chiude a casa. È una vergogna allora gli fanno dei lavaggi con un infermiere che mi ricordo che era il cognato di Galatolo, lui per questa brutta figura che aveva fatto un giorno mi chiama e mi dice vieni con me e siamo andati sul posto dove abita il Gaeta… io pensavo sinceramente a 16 anni che lui ci voleva litigare successivamente però facendo dei giri di perlustrazione mi sono accorto che lui in effetti aveva la pistola addosso”.
Il racconto si fa macabro: “… ci siamo fermati sotto casa di Gaeta, abitava in via Venanzio Marvuglia, io mi sono fermato… io portavo la macchina, Fontana Angelo è sceso, quando Gaeta arrivò e posteggiò la macchina gli ha aperto lo sportello gli ha sparato quattro colpi in testa, è venuto di nuovo in macchina e ce ne siamo andati. Onorato Francesco dottoressa (si rivolge al pm Amelia Luise mentre tira in ballo il pentito Onorato che ha parlato dei fatti dell’Addaura) ha detto sempre una bugia su questa cosa ha mentito sempre non c’è mai stato”. Perché lo zio lo avrebbe scagionato? Perché un mafioso del suo rango non doveva far sapere di avere coinvolto un ragazzino.
Il 6 aprile Fontana è seduto davanti al pubblico ministero Dario Scaletta. Conferma la sua volontà di collaborare con l’autorità giudiziaria. Racconta da dichiarante che suo padre ha investito 200 mila euro nell’impresa Caffè Moka di Gaetano Pensavecchia. Erano soldi accumulati con il contrabbando di sigarette.
Un mese dopo la morte del padre lui stesso ha messo “altri 110.000 nella Caffè Moka”. Ed ancora riferisce che Pensavecchia è intestatario fittizio di un immobile di sua proprietà. Se le sue parole siano un reale segnale di apertura è presto per dirlo.
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13 Aprile 2021, 06:01