“Così spavaldo, così bello, cosi testardo, così libero, così imperfetto e così perfetto. Mio padre. Ti amo sopra ogni cosa, buon viaggio papà. Non affumicare troppo il paradiso con le tue sigarette”. Così scrive Lavinia, figlia innamorata e amatissima di Mario Pupella che ci saluta con il suo ultimo atto, lasciandoci nel dolore. Analoghe parole sono rintracciabili nel profilo Facebook e nei pensieri di Daniela, figlia amatissima e innamorata e di tutti i figli, ci sono Alessandro, Marco, Massimo, e i familiari. E si legge ovunque la parola ‘amore’, negli omaggi social, a cui diamo, forse, un significato comune, mentre la spargiamo nei nostri giorni. Ma è in momenti come questi che capisci quanto sia alla base di tutto.
Oltre al giusto tributo per un protagonista, ai massimi livelli, del nostro teatro e nelle sue apparizioni cinematografiche, restano i ricordi privati di chi ha frequentato quel mondo, da dilettante. Di chi ne ha potuto condividere gli odori, le ombre e le finestre spalancate. L’odore del teatro – e i Pupella che gli hanno dedicato la vita non fanno eccezione – è anche la paura: delle prove che non sono mai esattamente rifinite, dello spettacolo, con le sue incognite, del pubblico che ti vede, ma tu non lo vedi, se non come massa scura di sottofondo. E ne percepisci i respiri, le ansie, fino a quando un applauso risplende e toglie ogni timore dal cuore di chi è sulla scena. L’odore del teatro è entusiasmo, scaramanzia, riti propiziatori che non servono a niente. E litigi, tensioni, cazzotti, talvolta. Ma la sua magia è questa: che, quando sei lassù, hai soltanto sorelle e fratelli.
Mario Pupella, gentiluomo, magnifico attore, macchina dell’opera, talmente aderente da essere inestimabile come il sipario, non essendoci teatro senza sipario, era innanzitutto un uomo buono e generoso. Non lo abbiamo mai colto in espressioni che non fossero di dolcezza. Era un marziano che attraversava la strada con quell’incedere di chi cammina, ma, tra un po’, sa che volerà, perché la parte lo esige. Era pure un palermitano disilluso della cosiddetta ‘cultura’ che si amministra in questa città, in troppe occasioni. Eppure, coltivava tenacemente i suoi sogni. Ecco il suo eroismo.
Tante sono le indimenticabili minuzie che tornano in mente. Mario che scherzava sulla sua somiglianza con Jack Nicholson. Una volta disse, ridendo: “Non vorrei che mi scambiassero per quello di Shining“. Se condividevi un tragitto in ascensore, nella suggestiva penombra di un piccolo viaggio, potevi ricavarne la medesima impressione, con un pizzico di inconscia suspense al cospetto di una maschera miracolosamente cangiante. E che smorfie indelebili, accanto a Ficarra e Picone, nella caricatura di un male – il boss – che l’ironia esorcizza fino ad annullarlo.
E quel sorriso intelligente, di chi aveva capito il copione disordinato della vita, che diventava calore di accoglienza. Il dono di un grande era la sua profonda umanità. Non puoi reggere il ritmo delle repliche ed essere amato, se non sei uno che si prende il pensiero per gli altri, scegliendo di stare dalla loro parte, più che dalla tua. Dice ancora Daniela: “Papà è un’anima buona, gentile, elegante e stravagante insieme. Il nostro faro che ci ha insegnato a vivere con ottimismo e ironia”.
“Te ne sei andato così, dispensando sempre consigli, tra uno spettacolo ed un altro. Una sigaretta tra le dita. Tua moglie accanto. I tuoi figli intorno. Specchio fedele di tutta la tua vita”, scrive Antonio Cottone, uno dei suoi affezionatissimi e sensibilissimi generi, l’altro è Salvo: pure lui ragazzo instancabile che cuce una vita di impegno, spesso dietro le quinte. Un sipario azzurro, l’amore su tutto e le benedizioni di tutti. Venghino, signore e signori all’ultimo spettacolo, portate un vestito di lacrime, ma tenetevi pronti per il cambio della speranza che entra sempre in scena prima o poi. E tu, carissimo Mario, avverti gli angeli, mentre prendi l’ascensore. Il panorama è bellissimo, la sera è dolce. Se li vedi preoccupati, diglielo che non sei tu quello di Shining. (Roberto Puglisi)