Davide Stival è l’uomo del coraggio e del silenzio, colui che ha avuto la forza di stare fermo, al suo posto, nonostante la rovina. Gli hanno ammazzato il figlio, Loris, che aveva appena otto anni. Gli hanno incarcerato la moglie, accusata del delitto. Intorno al dolore è stata montata una giostra con i cavallucci che continuamente girano per rinfocolare la meraviglia del morboso, un teatrino di pupi sostenuto dalla noncuranza.
E pontificano, questi pupi, sulla scena che vogliono solo per sé. Discettano. Col microscopio analizzano ogni goccia di sangue. Invece Davide – che avrebbe il diritto di bestemmiare, di gridare, di cercare un muro contro cui sbriciolare la stupidità delle marionette – sta proteggendo Loris, lo sta salvando – per il residuo che è in suo potere – dalla voracità di un universo di guardoni che ha già dismesso i panni del lutto, pur di vestire i paramenti televisivi.
Ci sono passati quasi tutti nel paese dei balocchi e dello scannamento, attraverso il fondale di cartapesta montato da Sua Morbosità Televisione, sulle quinte di un martirio. Antonella Panarello, la zia per parte di madre, è una comparsa irrinunciabile; presente se c’è da ravvivare l’audience. Carmela Anguzza, nonna materna di Loris, ha trasfigurato il suo volto di casalinga, indossando il calco di una maschera liftata; così si è seduta nel salotto di Barbara D’Urso per raffigurare la commozione in favore di telecamera. Le lacrime di Carmela e di Antonella sono sincere: non ne dubitiamo. Ma accade che il pianto si trasformi in bevanda dolcificata, nella contraffazione dello show. Altrimenti, senza un poco di zucchero, come farebbero a cadere nella rete gli spettatori-mosche, attirati laggiù da una spremuta al gusto di lacrima?
Il padre di Loris si è mosso al minimo, mandando avanti il suo avvocato, Daniele Scrofani, quando c’era da puntualizzare qualcosa, quando c’era da esprimere una critica educata al troppo esibizionismo in circolo. Poco sappiamo di lui. Davide è l’uomo invisibile che rimane al suo posto, di fianco.
Accanto alla moglie, Veronica Panarello, disfatta, nel giorno del ritrovamento del cadavere del bimbo, con un braccio offerto nell’atto di sorreggerla. Accanto alla bara bianca di Andrea Loris. Accanto al suo stesso dolore, con la sofferta lucidità di chi punta a restare umano. Sempre con quel volto pallido e segnato, sempre dalla parte del silenzio. Pochissimo sappiamo di lui e quasi mai dalla sua voce. Sono le voci degli altri che lo raccontano, nell’alternanza di accenti imposta da affetti e rancore.
C’è, in ultimo, la voce di Veronica, con la lettera scritta a suo padre Francesco, dal carcere di Petrusa: “Non ho più le braccia di Davide che mi avvolgevano facendomi sentire al sicuro”. La saldezza di queste braccia è un faro nella rovina. Ancora stringono Loris, per proteggerlo, confermando la forza di un legame indissolubile. L’amore di un padre e di un figlio non ha bisogno di altro per essere vero.