E’ un momento cruciale per l’Europa, e stavolta non per ragioni economico-finanziarie ma per l’improvviso incendio scoppiato nel nord della Siria a causa del feroce attacco militare voluto dal “sultano” turco Recep Tayyip Erdogan. Migliaia e migliaia di vite in pericolo. Una vera e propria invasione per realizzare, in un territorio estero da conquistare, una sorta di nuova “geografia etnica”, cioè per “spostare” almeno due dei tre milioni e mezzo di profughi siriani, finora ospitati in Turchia, a danno del popolo curdo perennemente perseguitato e trattato strumentalmente da covo di terroristi.
Le conseguenze di tale escalation di violenza possono essere devastanti, non soltanto in quell’area geo-politica sempre in ebollizione ma anche in Europa. E’ difficile districarsi tra gli infiniti intrecci di quella parte martoriata del mondo che hanno dato origine alla situazione attuale.
Un groviglio di interessi religiosi, politici, economici e territoriali che hanno coinvolto e coinvolgono diversi stati come la Siria, la Libia, Israele, l’Iran, l’Iraq, l’Arabia Saudita, la Turchia, le due grandi super potenze, Stati Uniti e Russia, e una Europa divisa sebbene estremamente implicata. Il vero motivo di preoccupazione però, oltre alle sorti del popolo curdo alla ricerca di una terra e della pace, entrambe ancora negate, è il risveglio del terrorismo fondamentalista islamico. L’Isis sta già dando segni di ripresa e l’attacco turco è una buona occasione per molti appartenenti all’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi di tornare liberi – è stata bombardata dai turchi una prigione piena di terroristi catturati dai curdi: c’è forse un piano per favorire i jihadisti? – e per ridare ossigeno alle cellule dormienti dopo la sconfitta del sedicente “Stato islamico” ad opera di un fronte ampio che ha compreso i combattenti curdi, adesso mal ripagati.
La scelta disastrosa del presidente Donald Trump di ritirare il contingente americano lì stanziato è stato interpretato da Erdogan come un via libera all’invasione e una certificazione della volontà della Casa Bianca di abbandonare i curdi al proprio destino. L’Unione europea, con l’Onu che ha riunito il Consiglio di Sicurezza, ha condannato l’arroganza turca minacciando, insieme a un ambiguo Trump, sanzioni economiche che darebbero un colpo mortale al regime di Erdogan. Il despota turco, per tutta risposta, ha a sua volta minacciato, se ostacolato, di aprire le frontiere e spingere verso l’Europa una marea di profughi siriani, così determinando il collasso dell’Unione europea.
Due, quindi, sono i reali pericoli per noi: il riacutizzarsi del terrorismo islamico in casa nostra e l’esodo incontrollato e incontrollabile di milioni di disperati. Fino a ieri si era riusciti a tenere calmo Erdogan dandogli parecchi soldi, ora si tratta del tentativo di snaturare completamente il faticoso percorso di costruzione di un’Europa forte economicamente e compatta politicamente.
Guarda caso il medesimo scopo perseguito dagli Usa di Trump e dalla Russia di Putin. La partita è davvero complicata. L’Europa è stretta tra la giusta condanna nei confronti della sanguinosa sortita turca e il ricatto di Erdogan. Sorge evidente, a margine, una domanda: che c’azzecca un Erdogan, dittatore e negatore dei diritti fondamentali delle persone, della libertà di stampa e di associazione, dell’espressione del pensiero, con i valori democratici dell’Europa e con l’alleanza atlantica della Nato? Nulla. Non solo, forse s’impone, magari in previsione di un infausto secondo mandato di Trump, una rivisitazione della politica estera italiana ed europea nei confronti degli Stati Uniti – vedi la questione dei dazi – approfittando del rischio di impeachment costantemente gravante sul capo del disinvolto presidente americano e delle critiche ormai numerose a lui indirizzate provenienti dal fronte teoricamente d’appartenenza, dai repubblicani.
Una cosa non possiamo certamente fare, cedere al ricatto di Erdogan (se non vogliamo diventare uno zerbino calpestabile da chiunque), piuttosto occorre avviare autorevolmente importanti trattative per fermare la guerra, tenere sotto chiave i prigionieri dell’Isis e dare una mano ai curdi. Abbiamo strumenti di pressione rilevanti a disposizione. In fondo Erdogan, ricatto o meno, ha solo da perdere se l’Europa si mostrasse a una voce e risoluta.