Solo la vita, neppure la vita - Live Sicilia

Solo la vita, neppure la vita

A un certo punto abbiamo trovato lui, c'era lui. E tutti gli hanno dato qualcosa, quello che potevano dare.

L’ho trovato in reparto lunedì mattina. Con la tuta bianca di carta e la mascherina davanti al volto a prevenire un contagio che non avverrà. Perché lui, anche se è un povero nero dell’Africa nera, non ha la tubercolosi come chiunque pensa sentendolo tossire. In fondo si sa: l’africano con la tosse è infetto per definizione. Come il napoletano nella scenetta di Troisi: non può viaggiare, può solo emigrare. Solo che lui non voleva viaggiare, ma emigrare per davvero. Era partito a febbraio da casa sua in Gambia e dopo tre mesi è arrivato in Libia grazie a mille espedienti e facendo qualche lavoretto per pagarsi il passaggio. E poi è rimasto un mese ad attendere che il carico umano fosse completo e che si potesse salire finalmente su quella carretta schifosa. Tutti insieme, con altri 109 disperati di varie nazionalità. Ne hanno recuperati solo trentasei e lui è uno di essi. Un altro è morto qualche giorno fa a Villa Sofia.

Vuole andare in Germania da un suo parente. Ha solo ventuno anni, tre in meno di mio figlio. Tutto ciò che possedeva al suo arrivo erano i pantaloncini che indossava quando è caduto in acqua, le ciabatte di plastica e la tuta bianca di carta con cui l’hanno coperto. Tutto il resto è finito in fondo al mare: niente soldi, niente documenti, niente agendina con indirizzi e numeri di telefono. Niente di niente. Solo la vita. I suoi occhi dietro la mascherina sembrano ancora più grandi e tristi. Ogni tanto tossisce per liberare i suoi polmoni da quella miscela di acqua e petrolio libici, reliquie straniere del primo bagno di mare della sua vita. Lui non sa nuotare ed è rimasto per tre ore a mollo aggrappato a un salvagente in mezzo ai corpi di chi davvero non aveva più niente. Neppure la vita. E poi la salvezza. L’hanno caricato sulla nave Etna e sbarcato a Palermo. Evviva la Sicilia, quella vera, quella buona.

Qui in ospedale i compagni di stanza e i loro parenti lo hanno accolto benissimo. Una signora gli ha portato una bottiglia di yogurt da bere, gusto fragola, e gli ha indicato come conservarlo nel frigo comune. Si è rivolta a lui alzando la voce, evitando accuratamente gli articoli e scandendo bene le parole come se bastasse questo per fagli comprendere il dialetto siciliano. Ma lui ha capito benissimo. E finalmente ha sorriso. Giovanna gli ha portato uno zainetto, avanzo del solito congresso, con dentro qualche maglietta, due mutandine, due pantaloncini. E la tuta bianca di carta con la zip sul davanti e l’etichetta con il numero spillata sulla manica finalmente è finita nella pattumiera. Gigio ha fatto il suo di zainetto con le altre magliette, una saponetta e un dentifricio e un pacco di biscotti. I suoi preferiti: Pavesini al gusto di caffè. Emilia ha portato una radiolina e un vecchio portafoglio. E poi ha comprato un orologio dalla cinese che espone la sua merce accanto all’indigeno che vende brioscine e pizzette davanti all’ingresso dell’ospedale. Chissà cosa vendono davanti all’ingresso di un ospedale in Cina o in Gambia.

E oggi è passato Giancarlo che ha perso la mamma alcuni mesi fa. Avevamo raccolto dei soldi per fare un’offerta, invece del solito necrologio che serve solo ad arricchire un editore. Ma Giancarlo ha deciso: gli donerà quel piccolo tesoro: “Mia mamma sarebbe contenta così”. Da lassù, lei adesso gli sorride carezzandogli i capelli ormai bianchi come faceva quand’era bambino. Sono passati alcuni giorni e lui ormai si sente al sicuro. E’ riuscito a chiamare casa. Ascoltavo il pianto di sua sorella attraverso la cornetta. Qualche volta passeggia nel corridoio della corsia. Profuma di vita nuova dopo la doccia e con indosso la maglietta rossa di mio figlio. Ha già imparato due parole di italiano: “va bene” e “grazie”. E forse non serve insegnargli quell’altra che tanto assomiglia al suo nome. Si, perché anche lui ne ha uno anche se quando è arrivato era solo un numero sull’etichetta: si chiama Hamoro. D’accordo, lo so che c’è una“h” di troppo e che la vocale finale è sbagliata. Ma quando leggo il suo nome sulla cartella penso che i Latini avevano proprio ragione quando dicevano “Nomina sunt omina”. Omina, appunto. Persino gli ultimi.


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