(di GIOVANNI BIANCONI da www.corriere.it) I magistrati di Firenze sono tornati a sentirli anche la scorsa settimana, sottoponendo i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano (nella foto) a nuovi confronti con un altro testimone dell’inchiesta riaperta sulle stragi mafiose del 1993. Perché dopo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, il pentito che la Procura toscana ritiene attendibile al punto da aver chiesto per lui il programma definitivo di protezione, il seguito dell’indagine passa soprattutto da loro, i due boss — oggi ergastolani — del quartiere palermitano Brancaccio che davano ordini al collaboratore di giustizia e non lo hanno rinnegato nemmeno dopo la sua collaborazione con lo Stato. Sono i Graviano, arrestati a Milano a fine gennaio del 1994, la «fonte» delle rivelazioni di Spatuzza sui referenti politici di Cosa Nostra nella sua stagione terroristica. Per questo i giudici del processo d’appello al senatore Marcello Dell’Utri (ormai vicini alla sentenza, dopo la condanna di primo grado a 9 anni di carcere per concorso in associazione mafiosa) li hanno convocati per domani. Dovranno confermare o smentire le dichiarazioni del pentito, ma qualunque loro risposta sarà poi valutata e decodificata trattandosi di «uomini d’onore» tuttora in servizio, come hanno stabilito le sentenze definitive e i comportamenti in carcere. Almeno fino all’estate scorsa, quando prima Filippo e poi Giuseppe sono stati interrogati e hanno dato risposte che i magistrati stanno ancora cercando di interpretare.
Sulle specifiche circostanze riferite da Spatuzza di cui si parla nel processo Dell’Utri (l’incontro con Giuseppe Graviano in cui il boss gli avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e del senatore, e quello con Filippo nel quale si discusse l’eventualità di collaborare coi magistrati) hanno negato o taciuto. Come è normale per dei mafiosi che non hanno mai ammesso la loro appartenenza all’organizzazione e rivendicano la propria innocenza per i delitti di cui sono stati dichiarati colpevoli, dalle stragi del ’93 in giù. Ma al di là dei singoli episodi, entrambi i fratelli hanno pronunciato frasi dietro le quali è legittimo chiedersi se si nascondono messaggi da decifrare.
Giuseppe Graviano, quello che secondo Spatuzza trattava direttamente con Dell’Utri e Berlusconi, ha spiegato ai pubblici ministeri di Firenze che «dobbiamo vedere cosa c’è dietro a quello che sta dicendo Spatuzza». Ha lamentato il «regime disumano e razziale, peggio di Guantanamo» che sta subendo con il «carcere duro» previsto dall’articolo 41 bis, e se l’è presa coi magistrati: «Trovate i veri colpevoli. Si parla sempre colletti bianchi, colletti grigi e… sono sempre innocenti i poveri disgraziati». Ma appena gli hanno chiesto se avesse qualcosa da dire sui «colletti bianchi» s’è ritratto, facendo però intravedere altri scenari: «Io non lo so. Poi stiamo a vedere se… qualcuno ha il desiderio di dirlo, che lo sa benissimo».
Anche Filippo Graviano — il maggiore dei due, 48 anni contro i 46 di Giuseppe — si proclama innocente: «Le mie colpe non sono quelle per cui sono stato condannato, in particolare in questo processo (cioè per le stragi, ndr ) ». Si definisce un «danno collaterale» delle inchieste e mostra di non vedere un futuro per sé: «Io non ho prospettive. Per me la cosa più bella sarebbe addormentarmi una sera e non svegliarmi la mattina. Sarei in pace con me stesso e con tutti». Nel frattempo, però, studia Economia e sostiene esami in teleconferenza coi professori dell’università La Sapienza di Roma. Al confronto con Spatuzza s’è presentato esibendo i certificati di 10 prove (quasi tutti trenta, un paio di lodi) e un biglietto di complimenti fattogli recapitare dal docente di Statistica.
Sui fatti raccontati dal pentito smentisce, ma precisa: «Io non ho nulla contro le tue scelte»; e quando il pentito rivendica che «nessuno mi può dire infame, perché non sto infamando nessuno», Filippo Graviano annuisce: «Ma assolutamente… Sono contento che tu hai ritrovato quella pace interiore…». Quanto al suo passato di mafioso tace: «Di certi argomenti non parlo». E se ammette una colpa, è quella di aver cercato di accumulare soldi, perché gli piaceva spenderne: «Io cercavo denaro. Oggi magari non mi interessa più, però allora era qualcosa più forte di me». Il magistrato cerca di sapere come faceva ad guadagnare e Graviano sr risponde, col suo italiano malfermo: «Se io trovavo un’area edificabile, un qualcosa da fare anche al nord, io l’avrei fatto. Se trovavo un’attività imprenditoriale l’avrei fatto… Ma non ne parlo perché è inutile». Poi, tornando alle accuse più gravi: «Io vi ribadisco, di stragi non ne so, di omicidi non ne so. E mi dispiace non poter chiarire». Domani lui e suo fratello avranno un’altra occasione. Per chiarire o ingarbugliare i fili, parlare o tacere, smentire, confermare o lanciare messaggi. E fare in modo che sulle proprie frasi tornino a fiorire le più diverse interpretazioni.