La storia della "vicinanza" | tra Stato e mafia - Live Sicilia

La storia della “vicinanza” | tra Stato e mafia

Massimo Ciancimino

Cinque anni, tre mesi e sette giorni. E' il tempo di un'inchiesta che rischia di modificare per sempre il volto della Repubblica. La raccontiamo, nome per nome.

PALERMO – Cinque anni, tre mesi e sette giorni. È passato tanto da quando è cominciato tutto. Anzi, da quando è ricominciato tutto. Di trattative e papelli si era, infatti, cominciato a parlare subito dopo il pentimento di Giovanni Brusca che – prima di tutti – ha parlato di un elenco di richieste che Cosa nostra avrebbe fatto pervenire allo Stato per fermare le stragi che stavano dilaniando l’Italia. Poi fu il turno dell’ex generale del Ros dei carabinieri Mario Mori che, il 27 gennaio 1998, di fronte ai giudici della corte d’assise di Firenze ha detto quella parola, “trattativa”, intestandosene la paternità come extrema ratio per rialzarsi in un momento in cui il paese “era in ginocchio”.

L’argomento finì nel faldone dell’inchiesta “sistemi criminali” che, sul finire degli anni ’90, conobbe l’archiviazione. Ma quella parte è sopravvissuta, stralciata dal resto, ed è rimasta dormiente per anni seppur i magistrati palermitani sostengono che le indagini sulla trattativa non sono mai state interrotte. Nel mentre, infatti, il tribunale di Palermo ha ammesso l’esistenza di una “trattativa” in una sentenza, quella che assolveva lo stesso Mori e il capitano Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Ultimo”, dall’accusa di aver favorito la mafia evitando di perquisire il covo di Riina all’atto del suo arresto, il 15 gennaio 1993. E tutto ricomincia proprio da chi era partita quella storia.

Nel dicembre del 2007 Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo – arrestato e condannato per riciclaggio e fittizia intestazione di beni – rilascia un’intervista a Panorama, in cui parla della trattativa. Il giornalista domanda se tutto ciò che stava per pubblicare era mai stato riferito all’autorità giudiziaria. Ciancimino risponde candidamente: “No, mai, eppure il capitano De Donno mi consegnò dei rotoloni gialli enormi con la piantina della città e degli elenchi di utenze telefoniche presumibilmente in uso a Totò Riina. Mio padre avrebbe dovuto segnare la zona e indicare i numeri telefonici. Dopo una settimana riconsegnai i rotoloni con indicato il quartiere di viale Regione Siciliana. ‘Lì dovete cercare Riina’”. In poche pagine di un settimanale si riscrive la storia dell’arresto del “capo dei capi”.

I primi a muoversi sono i magistrati di Caltanissetta, titolari delle indagini sulle stragi avvenute sul suolo palermitano. Ciancimino viene sentito nel gennaio del 2008. Seguono a ruota i colleghi palermitani a cui Massimo racconta anche del famigerato “papello”. Così il fascicolo viene ufficialmente riaperto. A questa marea si aggiunge anche un inedito: Gaspare Spatuzza, reggente del clan di Brancaccio, manovale delle stragi e assassino senza scrupoli si pente fra il giugno e il luglio 2008. E lui, sì, riscrive la storia. I magistrati gli credono e cominciano una indagine serrata: i fatti di via D’Amelio, così come cristallizzati dalle sentenze col bollo della Cassazione, cadono come un muro di cartone. Parallelamente Palermo indaga sulla trattativa. E nasce la dicotomia Palermo-Caltanissetta. Pomo della discordia quel Massimo Ciancimino di cui i magistrati nisseni non riescono proprio ad avere fiducia, al contrario dei loro colleghi del capoluogo regionale. Intanto, il figlio di don Vito, diventa un’icona: va in televisione e finisce, addirittura e paradossalmente, ad accaparrarsi la simpatia dell’antimafia militante.

La fotografia di Massimo Ciancimino e Salvatore Borsellino, uno di fianco all’altro, è un’immagine consegnata alla storia. E mentre il circo dei media si concentra sul figlio dell’uomo simbolo del “sacco di Palermo”, Spatuzza continua a parlare in tutto segreto, dando la possibilità alla Procura di Caltanissetta di svelare uno dei più clamorosi depistaggi della storia repubblicana, quello sulla strage di via D’Amelio.

Fra il febbraio e il marzo 2010 Ciancimino va alla prova del banco dei testimoni. Una tre giorni che va dal ministro Restivo a Dell’Utri, con la presenza costante come filo conduttore del famigerato “signor Franco”: un uomo senza volto che tale resterà. E riceve una caterva di minacce. Il processo è quello a Mori e Obinu che, nel ’95, mancarono un blitz per catturare Provenzano. Il “des” del “do ut” della trattativa. Poco prima, nel dicembre precedente, era toccato a Gaspare Spatuzza. Nella novena che canta all’aula bunker di Torino ripete, pedissequamente, quanto già verbalizzato e depositato nel processo d’appello per concorso esterno a Dell’Utri. Il dispiacere per la morte della bambina a Firenze – detto da uno che ha sparato a bruciapelo a don Pino Puglisi – l’incontro a Campofelice di Roccella in cui il suo capo gli fece la fatidica domanda (“capisci di politica?”) alla sua umile contestazione a proposito dei “morti che non ci appartengono”. E, infine, il climax: l’incontro al bar Doney di via Vittorio Veneto, a Roma, con Giuseppe Graviano – datato gennaio 1994 – in cui gli si annuncia che avevano il paese nelle mani grazie al compaesano e “a quello di Canale 5”.

Ma di questi fatti, Spatuzza, ne ha parlato oltre il termine stabilito dalla legge sui pentiti. Quindi, processualmente, non hanno validità a meno che non siano i due fratelli Graviano a confermare. Cosa che non avviene. E alla fine anche Massimo Ciancimino viene arrestato su mandato della procura di Palermo. Ha falsificato – palesemente – un documento per accusare il superpoliziotto Gianni De Gennaro.

Ma i magistrati, a Caltanissetta come a Palermo, continuano nella loro opera. E nel giugno 2012 arriva la richiesta di rinvio a giudizio per mafiosi, politici e carabinieri che quella trattativa l’avrebbero fatta. Forse non ci si aspettava che quelle indagini arrivassero a un punto, fatto sta che s’innesta un corto circuito nelle più alte sfere dello Stato. Si comincia dal pg Cassazione, che chiede gli atti di Caltanissetta. I procedimenti disciplinari del Csm neanche si contano più. La Procura nazionale si mette in mezzo. Quando nella richiesta di rinvio a giudizio di Palermo si cita anche Mancino saltano i nervi delle istituzioni italiane tanto che negli atti d’indagine finisce anche il Colle. Prima il consigliere Loris D’Ambrosio, scomparso dopo qualche settimana. Fino ad arrivare al numero uno, al presidente della Repubblica in persona, finito intercettato accidentalmente. Una questione sciolta dalla Corte costituzionale che ha dato ragione a Giorgio Napolitano.

L’inchiesta finisce al gup Piergiorgio Morosini che, prima di prendere il fascicolo in mano, si è dimesso dagli incarichi in Magistratura Democratica. Dei cinque pm che avevano iniziato le indagini ne sono rimasti solo due: Nino Di Matteo e Lia Sava. Antonio Ingroia, infatti, è volato per il Guatemala all’indomani dell’inizio del processo. Roberto Scarpinato è stato nominato pg di Caltanissetta. Paolo Guido ha abbandonato il gruppo strada facendo. Mentre, invece, il procuratore capo, Francesco Messineo, per una “questione formale” non ha neanche firmato la chiusura indagini. Morosini procede speditamente, nonostante la complessità della vicenda, i numerosi imputati e parti civili. Quando a gennaio si attendeva la decisione, se la trattativa sarebbe diventata un processo o si sarebbe dovuta arrestate allo stato embrionale delle indagini preliminari, il giudice ordina ulteriori attività. Si arriva così al giorno del giudizio, fissato per il 7 marzo 2013. Cinque anni, tre mesi e sette giorni dall’inizio della storia.


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