Strage di via D'Amelio, un furto di verità lungo 29 anni

Strage di via D’Amelio, un furto di verità lungo 29 anni

Restano troppi interrogativi senza risposta sulla morte di Borsellino e degli agenti di scorta
LA COMMEMORAZIONE
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PALERMO – Ventinove anni dopo il massacro di via D’Amelio restano troppi interrogativi senza risposta. La Commissione regionale antimafia siciliana, presieduta da Claudio Fava, ha di recente usato una descrizione a cui non serve aggiungere altri orpelli. Un “reticolo di responsabilità” ha assecondato, protetto, accompagnato “il furto di verità su via D’Amelio”.

Una dozzina di processi non sono bastati a ricostruire cosa accadde dietro le quinte del fronte di guerra. Perché via D’Amelio fu il secondo atto della guerra mossa da Cosa Nostra contro lo Stato dopo la strage di Capaci.

Fu solo Cosa Nostra? Ecco il tema centrale su cui si dibatte. Un tema attuale, visto che in molti pensano che il depistaggio, iniziato con le bugie di Vincenzo Scarantino, prosegua oggi con la figura di Maurizio Avola, killer catanese a cui ad un certo punto è tornata la memoria.

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Dice Avola che fu solo la mafia a volere le stragi: “L’ordine delle stragi lo ha dato Riina. Nessun servizio segreto. Borsellino e la sua scorta li ha uccisi Cosa Nostra…”. I pubblici ministeri di Caltanissetta lo hanno smentito in maniera perentoria con una nota stampa. Se fosse andata così con il falso pentito Vincenzo Scarantino oggi forse ci sarebbe una verità completa. Ed invece per diciassette anni la magistratura ha creduto che un malacarne di borgata dalla pessima reputazione, solo ed esclusivamente in virtù di qualche parentela mafiosa, potesse avere partecipato all’organizzazione delle stragi.

Ieri Scarantino, oggi Avola. Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, sentito dalla Commissione antimafia dice: “C’è da chiedersi: è un’operazione ingenua oppure qualcuno ha deciso di far suicidare processualmente Avola per togliere credibilità ad altre sue importantissime rivelazioni, alle quali non posso fare cenno, che avrebbero consentito di identificare uno degli addestratori all’uso dell’elettronica per la strage di Capaci? C’è qualcosa che si sta muovendo oggi, la filiera non è finita e questo spiega perché quelli che sanno i segreti – da Biondino a Graviano, ad altri – non parlano”. Il riferimento è alle prime dichiarazioni rese da Avola anni fa, secondo cui un mafioso americano venne a Palermo per istruire gli attentatori di Capaci.

Ventinove anni e troppi interrogativi aperti sul depistaggio per il quale si sta celebrando un processo a Caltanissetta a carico di poliziotti. Nessuna responsabilità è emersa nei confronti della magistratura, mai scalfita né penalmente né disciplinarmente per avere dato credito a Scarantino. Le grandi manovre oscure le passavano sotto il naso senza che ne sentisse l’olezzo. Eppure c’erano tanti spunti per bloccare sul nascere il depistaggio e oggi non staremmo qui a raccontarlo.

Perché Borsellino non era stato protetto, nonostante tutti sapessero che dopo Giovanni Falcone toccava a lui? Non misero neppure un divieto di sosta sotto casa della madre del giudice figuriamoci se pensarono a un dedicato sistema di sicurezza, controllo e bonifica con tutte le dotazioni che l’elettronica dell’epoca metteva a disposizione.

Eppure tutti erano consci che la strage di Falcone aveva segnato un punto di non ritorno. Il procuratore di Palermo Pietro Giammanco decise di stipulare un’assicurazione sulla vita da un miliardo di lire, “ma non fa una piega quando nel suo ufficio si vede recapitare il 18 giugno 1992 (un mese prima via D’Amelio) – si legge nella relazione dell’antimafia regionale – una missiva anonima raffigurante una bara e l’effigie di alcuni magistrati del suo pool, tra i quali appunto Paolo Borsellino”.

Giammanco è l’uomo a cui, autorevoli voci all’interno della stessa magistratura, hanno attribuito le responsabilità dell’isolamento professionale e umano di Falcone e Borsellino. Nessuno ha sentito la necessità di indagare su Giammanco, di concovarlo anche solo per chiedergli come mai alle 7:00 del 19 luglio telefonò a Borsellino per affidargli la delega sulle indagini antimafia a Palermo che aveva chiesto da tempo.

Nessuno ha chiesto a Giovanni Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta e ormai deceduto, così come il capo del pool di investigatori, Arnaldo La Barbera, perché avesse chiesto aiuto al Sisde per le indagini. In particolare a Bruno Contrada su cui si addensavano già delle ombre.

Che c’entravano i Servizi che non possono svolgere attività di polizia giudiziaria? Proprio uno 007 fece sparire sul luogo della strage l’agenda rossa di Borsellino che altri fantasiosi personaggi ora dicono essere stata duplicata in chissà quante copie tutte gelosamente custodite come arma di ricatto. Probabilmente l’agenda conteneva quel materiale che spinse Borsellino a confidare a Maria Falcone, alla messa in memoria del fratello Giovanni, “che era molto vicino a scoprire delle cose tremende… cose terribili, che avrebbero fatto saltare parecchie cose”.

Trame oscure, depistaggi, buchi investigativi: se tutto ciò non è accaduto per caso non si può non tenere conto del ruolo della magistratura. Collusa, connivente o semplicemente distratta, la magistratura non ha saputo o voluto impedire il “furto di verità” sulla morte di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina.


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