Strage di via D'Amelio: tutti i processi, le bugie e i 100 magistrati

Strage di via D’Amelio: la storia dei processi, le bugie e i 100 magistrati

Paolo Borsellino
Dal 1996 ad oggi: tutte le tappe

PALERMO – Una lunga sequenza di processi e una verità raggiunta solo a metà. Tra primo grado, appello, Cassazione e annullamenti si arriva a quasi venti dibattimenti che sul campo lasciano una certezza e mille punti oscuri.

I boss di Cosa Nostra decisero la strage di via D’Amelio, ma qualcun altro lavorò nell’ombra? Chi imbeccò i falsi pentiti nel cosiddetto depistaggio? Ci fu una convergenza di interessi fra la mafia e i mandanti esterni sempre evocati e mai individuati?

Potevano essere molti di meno, i processi, se la magistratura si fosse accorta in tempo delle bugie di Vincenzo Scarantino e soci.

Alle 16.58 del 19 luglio del 1992 in via D’Amelio il tritolo dilaniò i corpi di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Il 26 gennaio 1996 c’è la prima sentenza. La Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Renato Di Natale, condanna all’ergastolo Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto. Diciotto anni vengono inflitti a Scarantino. Ottiene uno sconto di pena per la sua collaborazione che riceve il primo bollo di attendibilità processuale.

Fino ad allora Scarantino, malacarne di Santa Maria di Gesù, era stato creduto dai pubblici ministeri di Caltanissetta e continuerà ad esserlo via via negli anni dai pm Giovanni Tinebra, Carmelo Petralia e Annamaria Palma (sono stati indagati, ma la loro posizione è stata archiviata) e Antonino Di Matteo.

In Corte di appello le cose cambiano. La Corte presieduta da Giovanni Marletta conferma il solo ergastolo di Profeta. Orofino si vede ridurre la pena a 9 anni per favoreggiamento. Assolto Scotto. Nel frattempo Scarantino ritratta.

Il 13 febbraio 1999 è la volta della sentenza del “Borsellino bis”. La Corte di assise presieduta da Pietro Falcone condanna all’ergastolo Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto.

Tre anni dopo, nel 2002, il collegio di appello, presieduto da Francesco Caruso, decide che a meritare l’ergastolo non sono solo sette imputati ma tredici. Si aggiungono i nomi di Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso.

Scarantino nel frattempo ha cambiato idea. Ritratta la ritrattazione e conferma il suo iniziale racconto. Si aggiungono pure i dettagli di un nuovo pentito, Calogero Pulci.

Il 9 dicembre 1999 viene emesso il verdetto del “Borsellino Ter”. La Corte presieduta da Carmelo Zuccaro, attuale procuratore generale di Catania, decide di infliggere il carcere a vita ai boss Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo, Cristoforo Cannella, Domenico e Stefano Ganci.

Ventisei anni per il pentito Salvatore Cancemi, 23 per Giovanbattista Ferrante, 16 a Giovanni Brusca. Cancemi è il primo boss della cupola a collaborare. Sbugiarda Scarantino. Neppure lo conosce.

Nelle motivazioni Zuccaro prende le distanze dal racconto di Scarantino. Lo definisce “parto della fantasia”. In appello il collegio presieduto da Giacomo Bodero Maccabeo non conferma tutti gli ergastoli e ottengono uno sconto di pena Stefano Ganci (30 anni), Giuseppe Farinella, Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Nino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi (20 anni ciascuno).

Il terremoto giudiziario accade da lì a poco. Si pente Gaspare Spatuzza, killer i Brancaccio. Il racconto di Scarantino crolla definitivamente. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, riparte da zero.

Sotto accusa finiscono Salvino Madonia (partecipò alla riunione in cui fu deliberata la strage), Vittorio Tutino (rubò la 126 poi imbottita di tritolo e piazzata in via D’Amelio) e Salvatore Vitale (abitava nel palazzo della mamma di Borsellino e fece da talpa). Sotto accusa anche Calogero Pulci per calunnia aggrava. Le sue bugie hanno riscontrato quelle di Scarantino.

Il 2017 è l’anno del processo “Borsellino quater” e della revisione celebrata a Catania su richiesta della Procura nissena. I giudici catanesi assolvono Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina e Gaetano Scotto. Erano stati tutti condannati all’ergastolo. Tornano liberi dopo decenni di carcere.

Il quater si conclude con l’ergastolo inflitto ai boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, e la condanna per calunnia di Calogero Pulci e Francesco Andriotta (altro collaboratore di giustizia farlocco).

Nell’ottobre 2020 si è chiuso in primo grado un altro processo a Caltanissetta. Per le stragi di via D’Amelio e Capaci è stato condannato all’ergastolo Matteo Messina Denaro. Carcere a vita confermato a luglio 2023.

Nel luglio 2022 il tribunale nisseno ha dichiarato prescritto il reato di calunnia aggravata contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei. È caduta l’aggravante di mafia. Assolto nel merito il terzo poliziotto imputato, Michele Ribaudo.

Facevano parte del pool di investigatori guidato da Arnaldo La Barbera, per molti il vero ideatore del depistaggio e ormai deceduto. Ora il nuovo verdetto che conferma la prescrizione e la estende anche alla posizione di Ribaudo che in primo grado era stata assolto nel merito.

Non è finita. Altri quattro poliziotti sono imputati per il depistaggio. Le bugie sulla strage di via D’Amelio sarebbero iniziate subito dopo le bombe del ’92 per proseguire fino ai giorni nostri. Sotto accusa Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco e Maurizio Zerilli, accusati di aver dichiarato il falso deponendo come testi nel corso del processo di primo grado sul depistaggio.

Due decine di processi con un centinaio di magistrati, tra requirenti e giudicanti, che hanno preso per buone le bugie dei falsi pentiti. Nessuno si è accorto che il regista del depistaggio, così viene definito, Arnaldo La Barbera, stesse tramando. Una distrazione di massa, un abbaglio collettivo nonostante ci fossero i segnali per smascherare il depistaggio.


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