Il depistaggio di via D'Amelio e i fallimenti della magistratura - Live Sicilia

Il depistaggio di via D’Amelio e i fallimenti della magistratura

La strage del '92 e quelle bugie che potevano essere smascherate

PALERMO – Ci sono punti oscuri, pagine che restano misteriose, responsabilità nascoste che probabilmente, purtroppo, mai emergeranno. A cominciare dalla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. C’è anche dell’altro, però. Che a fatica trova spazio nella narrazione imperante.

Un fallimento di metodo

Se non c’è piena verità sulla strage di via D’Amelio (il processo a carico di tre poliziotti si è chiuso con due prescrizioni e una assoluzione) è anche per responsabilità della magistratura che non ha il dono dell’infallibilità, anche se alcuni sono convinti del contrario. Non è una questione di colpe, ma di metodo.

Il falso pentito Vincenzo Scarantino ha mentito, ma un centinaio di magistrati – fra pubblici ministeri e giudici – ci hanno creduto per decenni e senza battere ciglio. Scarantino sarà stato pure indottrinato da qualcuno, in particolare da Arnaldo La Barbera, allora capo della squadra mobile di Palermo (da sempre considerato il regista dell’operazione Scarantino), ma ci sono state toghe che nessuna perplessità hanno sollevato di fronte al castello di improbabili menzogne. Un depistaggio, dunque, che poteva essere smascherato sul nascere.

Non si sa che cosa abbia spinto La Barbera, nel frattempo deceduto. I giudici del Tribunale di Caltanissetta ora spazzano via l’ombra delle sue collusioni mafiose. Lo avrebbe fatto per tornaconto personale, “per finalità di carriera”. Avrebbe fatto “letteralmente carte false per potere mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della polizia di stato e nell’establishment del tempo”.

Distrazione di massa

Se ciò è accaduto, è stato reso possibile da un appiattimento generalizzato sulle sue posizioni, dalla distrazione di massa di una fetta della magistratura.

“Si arrivò perfino a credere possibile la circostanza che Scarantino – scrivono i giudici – potesse entrare nella sala dove si stava svolgendo una riunione di cosa nostra in cui Totò Riina parlava dell’uccisione del giudice Borsellino per prendere una bottiglia d’acqua”.

Il collegio aggiunge “la considerazione che purtroppo costituisce un aggravio dell’aver considerato attendibile un racconto dello svolgimento una riunione di cosa nostra (non importa se deliberativa o operativa) degno di una mangiata il lunedì di Pasquetta che appare francamente incomprensibile come non ci si confrontò in alcun modo con le opposte (e ben più convincenti) argomentazioni svolte sullo specifico punto nel giudizio di appello del Borsellino 1”.

L’alert inascoltato

Ed ecco il nodo cruciale: gli avvocati delle difese (che in quanto tali furono additati come nemici della verità e pronti a vendere l’anima al diavolo o quasi) ma anche alcuni giudici e pm (pochi per la verità) avevano messo in guardia dalle bugie di Scarantino, ma altri colleghi hanno tirato dritto. Tre decenni dopo le sentenze definitive sono diventate cartastraccia.

Scarantino era stato “demolito”. Nel 1995, non oggi ma 38 anni fa, Scarantino si trovava faccia a faccia con Gioacchino La Barbera, Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi, e cioè con tre pentiti di spessore. Se Scarantino “fa parte di Cosa Nostra” allora “sono cambiate le regole”, diceva La Barbera. Di Matteo tagliò corto: “… o tu sbagli persona o stai dicendo un sacco di cazzate”. Cancemi era stato il più tranciante: “… tu non lo sai cosa significa uomo d’onore, tu sei bugiardo… quello che vi sta dicendo (rivolto ai magistrati) è una lezione che qualcuno gli ha messo in bocca”.

Eppure i giudici dissero che non c’era alcuna smentita, era solo una questione “di terminologia mafiosa”, dovuta al fatto che Scarantino “non apparteneva all’aristocrazia di Cosa nostra, non era stato presentato anche per questo fuori dal mandamento, era un semplice killer e guardaspalle e forse non era neppure un uomo d’onore in senso formale”.

“Ricostruzione grottesca”

Il Tribunale di Caltanissetta, che ha dichiarato prescritta (è caduta l’aggravante di mafia) l’accusa contro i poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, e ha assolto Michele Ribaudo, scrive nella motivazione: “Non può non osservarsi sin d’ora come la versione fornita dallo Scarantino in ordine alla riunione operativa tenutasi a Villa Calascibetta, apparisse piuttosto grottesca e assolutamente disancorata da quelle che erano le conoscenze sulla struttura di Cosa nostra che gli inquirenti ben avevano già al tempo. La smentita da parte di Salvatore Cancemi della versione data dallo Scarantino è supportata da una logicità ineccepibile oltre che ancorata a dati obiettivi e coerenti tra loro. Una mancanza di (reale) confronto con le decisioni coeve emesse dalle altre corti”.

I pm non depositarono subito i verbali di confronto. Fu una scelta processuale, così hanno spiegato, perché i collaboratori di giustizia erano indagati in un procedimento connesso. La Procura di Catania ha anche indagato sui pm Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo, ma l’inchiesta è stata archiviata.

“Essi hanno fornito una motivazione comune che riguarda il merito (profili relativi all’attendibilità di
Cancemi, Di Matteo Mario Santo e Gioacchino La Barbera) – scrive ora i tribunale – ma la questione è di metodo”.

“Una così forte svalutazione dell’attendibilità dello Scarantino da parte di altro collaboratore di
giustizia, unitamente ai dubbi e alle perplessità all’interno della Procura della Repubblica di
Caltanissetta su Scarantino avrebbe dovuto (non consigliare), ma obbligare a mettere (da subito) i giudici chiamati a valutare l’attendibilità di un collaboratore così difficile da maneggiare nelle migliori condizioni per farlo”.


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