CATANZARO – “Cosa nostra non può essere delegata solo alla magistratura o alle forze dell’ordine. Mio padre non aveva alcun sostegno ed è morto perché era solo, perché le mele marce dello stato hanno creato questo corto circuito per cui mio padre era stato isolato: non morirò per mano della mafia, affermava, ma la mafia mi ucciderà quando avrà la certezza che sarò rimasto solo. La responsabilità politica e morale della sua morte è di chi poteva fare e non ha fatto”.
A dirlo, è scritto in una nota, è stata Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo ucciso nella strage di Via d’Amelio, ai ragazzi degli istituti d’istruzione superiore di Rende. “Non bisogna accontentarsi del ricordo e della memoria – ha proseguito – ma pretendere la verità nonostante dopo 27 anni il percorso di questa verità appaia inesorabilmente compromesso. Tanti in questo senso i depistaggi e le omissioni: si parla sempre dell’agenda rossa di mio padre, ma nessuno dice della scomparsa dei tabulati telefonici del suo cellulare, unico oggetto rimasto integro dopo la strage. Se oggi si sa qualcosa è grazie a Gaspare Spatuzza e al suo pentimento. Diverso il discorso per Scarantino: per questo bisogna riconoscere le parti malate dello Stato affinché non si ricommettano più gli stessi errori. Il vero aiuto che avremmo dovuto avere da parte dello Stato non era una pacca sulla spalla, ma risposte precise. Noi abbiamo avuto con la sentenza della Borsellino quater la certezza del depistaggio e per questo abbiamo il dovere di chiedere verità allo Stato e abbiamo il dovere di raccontare a voi ragazzi la nostra storia”.
“Cercate il vero amore – ha poi detto Fiammetta Borsellino rivolgendosi ai ragazzi – che è capacità di amare ciò che non ci piace per cambiarlo. È lo stesso sentimento che ha spinto mio padre a non scegliere la via più facile quando nel dopoguerra giocava a pallone con i figli dei mafiosi. Ha invece scelto di cambiare lo stato delle cose combattendo ingiustizie e povertà. Alto era il suo senso di fedeltà allo Stato inteso come salvaguardia di diritti e libertà. Egli era però consapevole che quando politica, istituzioni e mafia si mettono d’accordo non vanno più verso la legalità. Per sconfiggere la criminalità, ripeteva, è necessario studiare: la mafia non si combatte con le pistole, ma con la conoscenza e la cultura. ‘Futtitinne’, diceva ‘non bisogna cedere all’omertà e alla paura, ma denunciare e rivolgersi allo stato’ e ogni sera davanti lo specchio si chiedeva se anche quel giorno si fosse guadagnato lo stipendio”. (ANSA).