“Chelazzi mi disse che voleva indagare Mario Mori, poi tre-quattro giorni dopo è morto”. Alfonso Sabella, ex pm della Dda di Palermo, oggi giudice a Roma, siede sul banco dei testimoni al processo per favoreggiametno alla mafia contro gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Giorgio Chelazzi era il procuratore capo di Firenze che indagava sulle stragi mafiose in ‘continente’. “Contrariamente alle sue abitudini – ha raccontato Sabella – quando ha sentito Mori ha fatto un verbale scarno” che è rimasta l’unica traccia di una presunta indagine della procura di Firenze contro Mario Mori.
Ma l’ex colonnello del Ros, a Palermo, deve rispondere del favoreggiamento della latitanza di Bernardo Provenzano, per l’ormai noto mancato blitz di Mezzojuso del 31 ottobre 1995. E il processo, in questa fase, sta scavando dentro la struttura del Raggruppamento operativo dei carabinieri e dei rapporti con la procura di Palermo. Relazioni anche tese, soprattutto all’indomani della mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo l’arresto, quando carabinieri e magistrati si sono rimpallati la responsabilità che ha portato a un processo senza alcun colpevole.
Alfonso Sabella, ai tempi pm a Palermo, ricostruisce le diffidenze che sorgevano in lui e in altri suoi colleghi nei confronti del reparto guidato da Mori. A cominciare dalla vicenda che ha visto coinvolto il boss madonita Farinella. L’indagine, dietro impulso dello stesso Sabella, è passata dalla squadra mobile al Ros dei carabinieri. “Farinella l’avevano visto tre volte” dice Sabella secondo cui i carabinieri avrebbero temporeggiato con la giustificazione di arrivare a qualche boss di prim’ordine. “A quel punto mi sono imposto e l’ho fatto arrestare” continua il magistrato.
Sabella, poi, arriva dritto al cuore del problema: “In una riunione ho chiesto l’esclusione del Ros dopo il ‘ritorno dei pentiti’ dell’ottobre 1997”. I personaggi in questione sono: Santino Di Matteo, Balduccio Di Maggio e Gino La Barbera che, dopo aver collaborato con lo Stato, sono tornati a scatenare le armi a San Giuseppe Jato. “In ufficio si diceva che gli ordini arrivavano dal carcere, da Giovanni Brusca ma, dopo l’omcidio Genovese, le cose non tornavano – continua Sabella – si diceva anche di connivenze fra mafiosi e carabinieri, in particolare con Giuseppe Maniscalco, di San Giuseppe Jato e legato a Di Maggio. Ci dissero che era un confidente del Ros e ci chiesero di non fare appello dopo la sua scarcerazione. Noi, invece, riusciamo ad arrestarlo, proprio per fare chiarezza. Maniscalco inizia subito a collaborare e svela il ruolo di Balduccio Di Maggio nella faida di San Giuseppe Jato”, smentendo la pista investigativa che portava in carcere, da Giovanni Brusca.
“Il Ros – aggiunge Sabella – aveva anche chiesto in una riunione un ‘cono d’ombra’ nella zona fra Marineo e San Giuseppe Jato”. In pratica non volevano neanche un posto di blocco in tutta l’area per svolgere indisturbati le indagini per giungere a Provenzano. “C’erano le lamentele dei sottufficiali, ‘il Ros arriva, non ci dice niente, fanno controlli negli archivi’… c’erano malumori, i carabinieri territoriali erano tagliati fuori dalle indagini dall’atteggiamento ‘assorbente’ del Ros”.
Sabella, infatti, rimprovera al raggruppamento il metodo di lavoro, per questo non voleva avessero l’esclusiva su Provenzano. “Mi comunicano una frattura fra gli uomini di Provenzano e Riina, nel marzo del 1995, confortata anche da Pasquale De Filippo. Ma dal Ros non trapela nulla. Con le altre forze dell’ordine c’era ampia disponibilità di informazione che, invece, venivano centellinate dal Ros.
Infine il magistrato parla delle conversazioni avute con altri suoi colleghi come Armando Spataro (oggi procuratore capo a Milano) o lo stesso Chielazzi. “‘So che state catturando Provenzano’ mi dicevano – dichiara Sabella – ed era un modo per accreditarsi, per dire che se fossero stati estromessi tutto sarebbe andato in fumo”. E il soggetto sottinteso è sempre il Ros dei carabinieri, mai come ora sul banco degli imputati.