Trent’anni di carcere. E’ la pena richiesta dal pm Fernando Asaro per i boss Cristoforo “Fifetto” Cannella, Cosimo Lo Nigro e Benedetto Capizzi per aver partecipato al sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, organizzato dai Brusca per tentare di tappare la bocca a suo padre Santino, che aveva iniziato a collaborare con la giustizia.
I tre uomini d’onore, secondo l’accusa, avrebbero curato varie fasi del rapimento del bambino, avvenuto nel 1993. In particolare, Cannella, eseguendo gli ordini di Giovanni Brusca, avrebbe studiato le abitudini del ragazzino per poi organizzare e mettere in atto il sequestro. Lo Nigro avrebbe anche lui partecipato al sequestro e a una riunione “logistica” avvenuta in precedenza. Avrebbe pure provveduto a portare il ragazzino a Misilmeri, dove trascorse la prima notte lontano da casa. Benedetto Capizzi avrebbe invece messo a disposizione la sua casa di Lascari, vicino Cefalù, dove Giuseppe fu tenuto segregato per diversi giorni.
I tre boss, rinviati a giudizio qualche giorno fa insieme ad altri sei mafiosi (il latitante Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, capomafia di Brancaccio, il pentito Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e Salvatore Benigno), hanno scelto il rito abbreviato. A giudicarli è il gup di Palermo, Daniela Troja, e molto probabilmente la sentenza dovrebbe arrivare alla fine di settembre.
Sono quattro i processi già giunti a sentenza sulla vicenda. In questo caso, sono state raccolte tutte le dichiarazioni fatte negli anni da vari pentiti (tra cui le ultime sono quelle di Gaspare Spatuzza), contro persone mai indagate prima relativamente alla fase iniziale del sequestro. Giuseppe Di Matteo fu prelevato dal maneggio di Villabate, in cui era andato per accudire alcuni cavalli e passare una giornata di equitazione, da un gruppo di uomini travestiti da agenti della Dia. In realtà si trattava di Salvatore Grigoli, Gaspare Spatuzza, Cristoforo Cannella, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano e Luigi Giacalone. “Tuo padre ti vuole, devi venire con noi”, avrebbero detto al ragazzino.
Un padre che il piccolo Giuseppe non vedeva da un po’: aveva iniziato a collaborare con la giustizia ed era dunque sotto protezione. Vedendo le divise della Dia si sarebbe subito fidato e avrebbe accettato di seguire quelli che saranno i suoi carnefici. Il sequestro è durato più di due anni, il ragazzino è stato nascosto in diverse zone della Sicilia: veniva spostato da un punto all’altro come un pacco, mentre alla sua famiglia venivano inviati messaggi intimidatori. Il giorno stesso del rapimento fu consegnato a casa Di Matteo un bigliettino in cui si intimava di “non fare tragedie”, di non avvisare le forze dell’ordine. Successivamente, alcune foto di Giuseppe con in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, con la scritta inequivocabile “Tappaci la bocca”. Suo padre in effetti sapeva tanto. Troppo. Non solo sulle famiglie mafiose, ma anche e soprattutto sulla strage di Capaci. E la sua scelta di pentirsi era un bel problema per Cosa nostra. Santino Di Matteo continuò a parlare e Giuseppe, che aveva l’unica colpa di essere suo figlio, fu dunque per vendetta strangolato e poi sciolto nell’acido.