"Troppo disattenti con la mafia" - Live Sicilia

“Troppo disattenti con la mafia”

Padre Stabile
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Il richiamo di alcuni vescovi del Sud al ruolo “coraggioso” della Chiesa nella battaglia contro la mafia ha riportato l’attenzione del dibattito intorno “alla cultura mafiosa” sulle scelte e le azioni di sacerdoti e gerarchie ecclesiastiche . Il vescovo di Mazara Mogavero, quello di Agrigento Montenegro e di Locri Morosini non hanno usato mezze parole, né lesinato critiche all’azione “spesso timida” della Chiesa. Livesicilia ha parlato di tutto questo con padre Michele Stabile, parroco del Don Giovanni Bosco di Bagheria.

Padre Stabile, partiamo proprio dal monito lanciato dalle colonne di Famiglia Cristiana da parte di alcuni vescovi meridionali. Dicono: “La Chiesa è stata a volte troppo timide rispetto alla mafia, è giunto il momento di scelte coraggiose”. Condivide?
“Sono assolutamente d’accordo: per tanto tempo i vescovi sono stati disattenti o piuttosto freddi rispetto al problema della mafia, eccezion fatta per qualche raro caso. E’importante che questo percorso sia portato avanti, però, non da qualche vescovo isolato, ma dall’intera Conferenza episcopale italiana. La Cei siciliana finalmente ha prodotto qualcosa di nuovo. Vi è, per esempio, una nuova consapevolezza sul tema della lotta contro il pizzo. I preti devono incoraggiare i commercianti, gli imprenditori a non pagare e denunciare. Mi fa piacere che ci sia, dunque questo tentativo di incoraggiamento da parte di questi vescovi, anche perché l’ultimo documento dei vescovi siciliani risaliva al lontano 1994. Ripeto, però, che è necessario il coinvolgimento dell’intera Chiesa e non solo di vescovi in ordine sparso.”

Monsignor Mogavero,  responsabile della Conferenza episcopale italiana per gli affari giuridici, propone di affrontare il problema della mafia “occupandosi di temi concreti legati alle specificità del territorio in cui ciascuna comunità opera”. Quali proposte si sente di fare in tal senso?
“Insieme ad altri sacerdoti, ho avanzato la proposta di costituire un osservatorio o un gruppo di lavoro presso la Cei siciliana per studiare l’evoluzione della mafia. Purtroppo non ci è pervenuta nessuna risposta. Credo che non siano sufficienti le dichiarazioni ufficiali . Bisogna studiare, approfondire i temi legati al fenomeno mafioso attraverso la predicazione, la catechesi, gli itinerari di formazione. Servono modalità nuove, la Chiesa non può restare indietro o stare ferma. Penso che servano meno apparati, meno riti e tradizionalismi e più impegno sociale ed evangelico.”

Negli anni ’90, grazie alle nette e coraggiose prese di posizione del cardinale di Palermo Pappalardo e di Papa Wojtyla, si è arrivati a parlare di mafia come “peccato sociale”, gettando le basi per quella che è stata ribattezzata “pastorale antimafia”. Come vanno declinati questi concetti oggi?
“Sono stato tra i primi a parlare di questi concetti, perché sono convinto che la mafia rappresenti un peccato sociale e una struttura di peccato. La Chiesa deve usare il proprio linguaggio specifico per parlare di mafia. Questa è stata una grande intuizione di Giovanni Paolo II che si è rivolto ai mafiosi parlando di giudizio divino e di conversione. Chi è mafioso non può essere cristiano.  C’è una assoluta incompatibilità tra mafia e fede. La Chiesa non deve scendere a compromessi col sistema sociale: deve combattere il clientelismo perché lì si annida il malaffare e la corruzione. I sacerdoti costituiscono un’importante agenzia educativa e devono assolvere alla loro funzione evangelica.”

La Chiesa siciliana ha anche pagato un alto tributo di sangue per combattere la criminalità organizzata: nel 1993 l’uccisione di Don Pino Puglisi per la sua infaticabile azione antimafia svolta nel quartiere di Brancaccio. Qual è la lezione lasciataci in eredità da Padre Puglisi?
“Don Puglisi ha fatto un’opera di coerenza rispetto al Vangelo, alla fede e a Gesù Cristo. Questo si può fare anche senza compiere nulla di speciale o straordinario, ma agendo sempre liberi da compromessi o strumentalizzazioni. Alcuni intendono la religione come uno strumento di ascesa sociale:  si dicono credenti perché gli serve una legittimazione.  Questa è falsa devozione, è ciò che io chiamo “ateismo devoto””.

Secondo lei, ci sono ancora preti che hanno paura di parlare apertamente di lotta alla mafia?
“Non credo si tratti di paura, però alcuni pensano che questa questione non li riguarda. Credono che la mafia sia un problema solo della società civile. Invece, la mafia è intrinsecamente contraria a tutti i valori cristiani. I mafiosi questo devono saperlo. Non possono dirsi cristiani. La mafia, poi, è anche un problema culturale e non solo criminale. Non è la banda della Magliana, bensì l’organizzazione mafiosa vive e si nutre di un contesto sociale, culturale, economico e politico che ha favorito processi di illegalità, di mancato riconoscimento della legge e dello Stato. Qui al Sud anche la borghesia si è fatta avanti tramite la violenza, le intimidazioni. La Chiesa deve denunciare a voce alta questi fatti.”

Ci parli della sua esperienza personale. Come si comporta nella sua parrocchia?
“Io non ho remore a parlare di queste cose, questo lo sanno tutti nella mia comunità. Parlo spesso di questi temi nelle mie omelie, svolgendo il mio ruolo di annunciatore del Vangelo, spiegando ai fedeli che la mafia è inquinamento della cultura evangelica. Bisogna ribadire l’importanza di questi temi. Senza indugi”.

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