L’uomo che girava nei cantieri per conto di Passalacqua sarebbe Gianfranco Grigoli, arrestato nel 1997 a Chianciano per favoreggiamento della latitanza del padrino e tornato in città per suo volere. Una conversazione spiega come funzionava il sistema. Passalacqua diceva alla figlia Margherita: “… chi sa… vuole una persona… per guardare, ci guadagniamo noi stesso, a papà… e continua tanto c’è Franco e se ci devo mettere una persona, ci guadagniamo noi altri….”.
Nel settore delle guardianie era molto attivo anche il genero di Passalacqua, Salvatore Agroi che a un suo interlocutore spiegava come era riuscito a fare ottenere ad un fabbro lo sconto sul pizzo: “Ora gli faccio: ci sono padri di famiglia arrestati là.. mi raccontano che hanno problemi, mille euro duemila euro gli si devono dare, dice, fra due giorni, se loro non li vogliono dare a me perchè gli dico che hanno mandato me, per non farsi riconoscere, gli dico, loro vogliono tremila euro dammene duemila, poi mi accordo io, gli dic… gli dico, se poi tu a me non mi credi gli faccio venire altri cristiani… e poi ti arrangi”.
Un occhio di riguardo meritavano i familiari dei carcerati. Per loro il capomafia faceva di tutto per trovargli un posto di lavoro e, se necessario, pure per fargli avere un aumento dello stipendio: “Gli sembravano pochi a quella sicuramente 500 euro al mese…….e gliene facciamo…gli facciamo dare 1000 Euro, …ma che vorrebbero…”
Come accade spesso erano i commercianti a rivolgersi ai mafiosi. Il titolare di un bar del centro di Carini, dopo avere subito un furt,o aveva chiesto l’intervento di Passalacqua. Si scoprì che a rubare era stato un suo dipendente. I gregari del padrino commentavano così la notizia: “… dove ti danno da mangiare e bere… è sbagliato lo capito però… ma è vero… dove si mangia e si beve gli si va a rubare?”. E così il dipendente infedele era stato condotto in un luogo isolato in montagna per essere giudicato secondo le regole d’onore di Cosa nostra. Dalle conversazioni intercettate emerge che gli avevano addirittura scavato la fossa per seppellirlo: “… non lo so che aveva comprato l’escavatore, so che siccome vuole fare fossi… capisci? per questo… come vuole fare fossi? … so che vuole fare fossi perciò, perciò per fare questo lavoro ci… ci vuole l’escavatore”. Il ladro aveva invocato il perdono: “… però non è che piangeva per paura, piangeva come un bambino per il fatto della vergogna perché dice, per la brutta figura che ha fatto, dice, perché quello aveva una fiducia da morire..”. E il proprietario del bar aveva messo una pietra sopra la faccenda: “Tutti possiamo sbagliare nella vita, o no? o sbaglio Fra… allora Pietrì, per come si è comportato, lui quando si… perché giustamente si meritava di essere licenziato… oh, ha risposto, e dice no, siccome è padre di famiglia e cose, sta da lui, ha due figli, fallo lavorare prende e dice… va beh, dice chiedo scusa dice e dice e se lo è chiamato per baciarlo.”
Il 27 aprile 2009, all’interno del residence Serracardillo a Villagrazia di Carini, era stato incendiato un escavatore di proprietà di Giacomo Lo Duca. Non era una ritorsione come le altre. Era la spia dei dissidi all’interno della famiglia mafiosa per la gestione dei lavori di sbancamento e movimento terra della zona. Qualcuno non aveva rispettato i patti. “No, non li hanno fatti lavorare più, ai camion di Cagnuleddo, mi hai capito?… commenta Giuseppe Evola, personaggio centrale nelle indagini dei carabinieri. Ed ancora: “Cagnuleddo gli ha fatto comprare l’escavatore, lui e li ha messo in mezzo lui… A questi due li ha messo, Battista neanche li ha guardati a questi, li ha messi in mezzo Cagnuleddo… Gli ha fatto trovare l’escavatore, il camion, tutte le cose, e sono rimasti con Cagnuleddo, Compà voi scavate ed io… si è comprato anche il camion, mi hai capito?..”. Gli accordi erano che l’impresa di Lo Duca, facente capo alla famiglia Passalacqua, si occupasse degli sbancamenti, mentre il trasporto dei materiali era appannaggio delle ditte di Giuseppe Pecoraro, u cagnuleddu, e Nino Ppitone, da tempo detenuti. Solo che Lo Duca si era allargato, meritandosi la punizione organizzata secondo l’accusa da Tony Buffa e Croce Maiorana, cognati dei due uomini d’onore da cui sarebbe partito l’ordine dal carcere. La vicenda si sarebbe poi complicata. Pecoraro aveva minacciato di suicidarsi in carcere se avessero fatto del male al cognato. Alla fine era intervenuto il padrino a risolvere la questione. Gli esecutori dell’intimidazione si erano impegnati a ripagare l’escavatore bruciato e a lasciare la Sicilia per rifugiarsi in America.