Quella di Fatima (che non si chiama così) è una storia di rabbia e di speranza, di sconfitta e di riscatto. È una storia di degrado e povertà, di sopraffazione e violenza, ma anche di coraggio, emancipazione e tenacia. Di resilienza e di resistenza. Di come si debba imparare a sopravvivere per poi riuscire a vivere.
Fatima, approdata con la sua famiglia nella parte ricca del globo nella speranza di opportunità migliori. La piccola Fatima, che sogna di andare a caccia di comete, che ama le stelle. Le notti d’estate le osserva brillare nello spazio in cui tutto è lento e maestoso.
L’infanzia. Quel periodo incantato nel quale la vita dovrebbe promettere solo meraviglie. Segnato da vessazioni, umiliazioni, oppressioni psicofisiche; dalle restrizioni dell’integralismo, retaggio della cultura di origine.
Alla condizione di crescere in una terra che non è la propria, si somma il contesto di povertà economica e di deprivazione educativa nel quale lei e le sorelle sono costrette a vivere. Per fortuna ci sono le stelle, il rifugio della mente che alimenta sogni e speranze. All’infanzia segue l’adolescenza, con la voglia di vivere e di affermare la propria libertà.
Ma per Fatima niente svaghi, nessuna possibilità di uscire con le amiche. Ostaggio di ricatti morali, minacce ed intimidazioni. Lo sguardo del padre inchiodato ai suoi vestiti all’occidentale, a quei braccialetti di tessuto destinati a venire tagliati da un colpo di forbice durante una lite; quello stesso sguardo di chi, in quegli anni di vita, dovrebbe trasmettere amore e comprensione, speranza ed apertura.
La mamma che non muove un dito per difendere la sua figlia maggiore, in virtù di consuetudini e convenzioni spesso spacciate per leggi o dogmi religiosi.
La scuola l’unico punto di contatto con il mondo, la salvezza. E poi, lo studio: la matematica, le scienze, la fisica. Quelle discipline che possano applicarsi alla materia degli astri.
Fatima ama studiare. Proprio qui, al Sud, dove l’abbandono scolastico e l’impreparazione sono fenomeni diffusi. Ma i genitori non vogliono che lei prosegua. Quel paese dell’entroterra siculo diviene come una Kabul in cui padri vietano alle figlie di andare a scuola; nel quale la violenza di genere diventa elemento strutturale e ricorrente, frutto di una volontà ossessiva di volere punire le donne che si ribellano ad un sistema che le vuole succubi.
Gli anni passano, le stelle rimangono, i sogni anche. Dolore e speranza. Fatima che, per timore, dorme con un pezzo di vetro acuminato sotto il cuscino.
La rabbia. La percezione che una vita libera sia solo un sogno, una chimera. Il pensiero costante di ciò che poteva essere e quello che invece è. Ciononostante Fatima è libera, indipendente, forte, saggia.
Chissà quante volte ha immaginato se stessa volare verso il cielo stellato, verso la meta. Se c’è una sola possibilità, quella è attraverso la strada della ribellione, della fuga da quell’ambiente malsano e violento. La vita non aspetta, non aspetta mai. Prima suggerisce, poi definisce, infine, impone il cambiamento.
Ripartire di nuovo, dunque. Altrove, ancora una volta. Verso una libertà possibile, inseguendo quel senso del riscatto o, più semplicemente, il desiderio di vivere nella pienezza dei sentimenti, delle ambizioni, delle passioni. Un viaggio verso la speranza, verso qualcosa di diverso, di nuovo. Lontano dai soprusi e da quella famiglia che, giorno dopo giorno, si dimostra sempre più una gabbia, un contesto in cui non si riesce ad essere se stessi.
L’arrivo in una grande città, luogo di forti emozioni. Il culmine di una gioia non illusoria e che Fatima sa essere solo frutto della sua determinazione. Adesso la attende l’Università, arriva il momento di intraprendere quegli studi che possano tenere in vita il sogno: gli studi in ingegneria aerospaziale.
Voleva studiare, ora può farlo. Probabilmente non come né dove immaginava; d’altronde, non c’è mai una cosa che avvenga nel modo in cui ce la siamo prefigurata.
Eppure, se andare via non è una scelta o un’opportunità ma il necessario per vivere, mancherà sempre qualcosa. O qualcuno. In quella grande città, nella sua nuova vita, Fatima si ritrova spesso a pensare alla propria madre. Con tenerezza, senza rancore. Nonostante tutto. L’amore imperfetto.
Perché anche Fatima, che ancora madre non è, percepisce che per una donna far del male al proprio figlio è come uccidersi senza morire. E sua madre, alla fine, è una vittima esattamente come lei; o, forse, ancora di più perché non ha avuto la forza della ribellione.
Fatima coraggiosa, determinata, saggia. Ma ciascuno è quel che è anche in ragione delle persone che ha incontrato lungo il cammino. In quel piccolo borgo, fuori dalle cronache, dove scorre una vita ordinaria, ma dove sono forti i valori della generosità, della solidarietà e dell’accoglienza, Fatima ha incontrato le persone giuste. Umanamente giuste, innanzitutto.
Che non hanno disgiunto il quotidiano esercizio della professione dall’attenzione e la considerazione per la persona umana. Al di là di superficiali pregiudizi su diverse provenienze, etnie, appartenenze culturali o religiose. I suoi insegnanti. Che hanno dimostrato che insegnare nel senso più aulico del termine non è soltanto trasmettere conoscenze o, peggio, nozioni.
Obiettivo è lo sviluppo della persona umana nella sua integralità. Gli insegnanti di quel piccolo centro hanno onorato il loro ruolo e restituito dignità alla scuola ed alla funzione educativa.
Questa, dunque, la storia di Fatima. Una storia che dimostra che è la cultura lo strumento per la conquista e l’affermazione della libertà e della dignità personali. E che è la scuola il primo ed insostituibile presidio di civiltà.
Continua ad inseguire i tuoi sogni, Fatima. Affinché tu possa brillare come la più luminosa delle stelle. E possa rischiarare con il tuo esempio il cammino delle tante altre Fatima che hanno il diritto di disporre della propria libertà e di scegliere il proprio futuro.