Il breviario del nuovo vescovo di Palermo, Corrado Lorefice, dovrebbe contenere un comandamento supremo, un’unica speranza, un necessario augurio da porgergli con fiducia: che sappia chinare l’orecchio sulla città dolente e ascoltarne il battito, tralasciando gli effetti speciali. La vocazione di un pastore consiste nel ritrovamento della pecorella smarrita, per quanto aspro e irto di spine possa manifestarsi il cammino.
Palermo è un presepe decaduto col suo illusorio cielo azzurro di cartapesta. La quinta di cartone è scivolata nell’abisso, rivelando la nudità. Né bastano più a risollevare lo spirito le zampogne di certi pastorelli laici dell’antimafia o il sorriso plastificato dei rapaci professionisti dell’ottimismo. La retorica, no, non serve più. Palermo vomita contorcimenti, grida con quanto fiato ha in gola la sua pena. Si naviga a vista in un malessere stampato su ogni faccia che non risparmia nessuno, né poveri, né meno poveri. L’assenza di speranza è il morbo che non dà scampo.
La Chiesa palermitana è stata fin qui sorda o generosa, nella schizofrenia dei suoi molti linguaggi, appartata o partecipe. Comunque inadeguata, perché priva di visione. Hanno tentato di organizzarsi alla spicciolata per portare soccorso, questi uomini di questa Chiesa, con il materiale disponibile, in penombra e disorientati, anche loro come gli altri. Hanno usato variabili stratagemmi, non sapendo a quali santi votarsi, unendo puntini lontanissimi e pregando che il disegno finale risultasse coerente. Hanno perfino ridotto don Pino Puglisi alla sua miniatura, per circoscriverlo in santino benedicente, normalizzando una esperienza rivoluzionaria con l’odore di incenso che adorna l’altare maggiore: quanto di più distante dalla fisionomia di un parroco in fondo eretico per la sua istituzione.
Ci hanno provato i cavalieri e i fanti di una comunità in crisi. Le prediche, talvolta, sono state scritte bene. Minuti eroi della solidarietà, armati di maglioni e di coperte, ogni notte battono i vicoli alla ricerca di esistenze da riscattare col lumino dell’amore caritatevole. Ma ciò di cui si avverte la mancanza è un’autentica parola di salvezza che non risulti subito incredula, spenta all’origine.
Se la voglia di redenzione è già ospedale da campo, non c’è miglior campo di Palermo per sperimentare un ospedale. Bisognerà, certo, strappare l’ultimo lembo delle ipocrisie, procedendo con la sensibilità dell’ascoltare e l’inflessibilità del parlare scoperto. Solo la verità pronunciata senza sconti avrà la forza di un annuncio. Solo la misericordia rivendicata senza timidezza potrà tentare un miracolo nel tempio del più rassegnato dolore.