Ho conosciuto la guerra tramite i libri di scuola e l’atrocità di questa dai racconti di mio nonno Peppe che fin da bambina mi narrava di quando per sfuggire alla cattura dei tedeschi si nascose sotto i corpi dei propri compagni morti. Ma è altra cosa guardare la paura attraverso gli occhi di un altro, anche se vispi e curiosi come erano quelli del mio nonnino e talvolta, mi piaceva pensare che il mio canuto narratore avesse forzato un po’ quel triste racconto in modo che io cingessi ancora di più le mie braccia attorno al suo collo.
Un giro in motorino con la calura settembrina tra i capelli, una passeggiata nel parco: chiacchiere banali da diciottenni in un magnifico giorno di sole di settembre. “Cosa farò da grande?” “Dove sarò tra dieci anni?” erano i problemi che assalivano il mio piccolo mondo. E poi al rientro a casa lo sgomento. Una notte passata attaccata alla televisione ad aspettare che facesse giorno, che il sole facesse di nuovo capolino in cielo per darci il segnale che dopo quel terribile giorno poteva esserci posto ancora per un altro giorno.
Ho con sciocca illusione immaginato che sarebbe venuta giù una pioggia fitta e interminabile per ripulire tutto quel fumo di violenza e morte crollato. Chissà, forse l’uomo con l’arca sarebbe presto venuto a prendermi come ultimo esemplare di chi confida ancora che il ciclo del mondo può cambiare e che non è per forza solo odio e guerra?
Ma dopo dieci anni nessuno ha bussato alla mia porta.