Universo New Port: |ecco chi sono i 24 soci segnalati - Live Sicilia

Universo New Port: |ecco chi sono i 24 soci segnalati

Da "S" n.39, l'inchiesta
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Alla “casa del portuale” la mattina presto il sole picchia e due randagi sonnacchiosi accolgono i lavoratori del porto di Palermo, per i quali la giornata è già cominciata da diverse ore. L’aria è elettrica e la tensione è scolpita nei loro volti. Sono tutti soci e lavoratori della New Port, la società finita nell’occhio del ciclone perché la prefettura di Palermo ha negato il certificato antimafia necessario per avere rapporti con le pubbliche amministrazioni fra le quali rientra, ovviamente, anche l’autorità portuale cittadina. Entrando nel vecchio edificio che ospita la compagnia, una lapide ricorda il sacrificio dei portuali palermitani che, nel 1943, sotto i bombardamenti continuarono a lavorare per assicurare approvvigionamenti vitali per l’Isola. E molti di quei cognomi sono gli stessi contenuti nell’informativa firmata da Giuseppe Caruso che ha evidenziato come la posizione di 24 soci osta il rilascio della certificazione e getta l’ombra dell’infiltrazione mafiosa nella società che – praticamente da sempre – si occupa del porto di Palermo. Ventiquattro storie da raccontare.

I portuali
“La Compagnia lavoratori portuali, regolata dal codice della navigazione, nasce nel 1920. Mio nonno era ‘console’ quando sbarcarono gli americani”. Vincenzo Spataro è il presidente della New Port e, da una vita, vive fra le banchine lambite dal mare. “Nel 1980 – continua – c’è stato un primo concorso pubblico bandito dall’ente porto in cui sono entrate le prime centoventi persone. E c’erano due condizioni: bisognava avere il certificato di buona condotta civile e morale e veniva data prelazione ai figli dei portuali. Altre cento persone entrano nel 1986, con un concorso bandito inizialmente per 60, ‘lievitato’ di altri 40 posti sotto la condizione che la compagnia dei lavoratori portuali di Palermo incorporasse quella di Termini Imerese”. Poi una mezza rivoluzione: “Nel 1994 – continua Spataro, che accende una sigaretta dietro l’altra – per volontà di legge, la cooperativa atipica che era esistita fino ad allora ha subito una trasformazione in 3 società: la In port spa, la New Port srl e la Clp arl. La prima era la ‘cassaforte’ societaria, la seconda includeva gli operai specializzati mentre l’ultima, la cooperativa, forniva la manodopera. Poi c’è stata una fusione per incorporazione fra In port e New port, mentre la cooperativa è rimasta. E sono sempre gli stessi 209 soci. Nel 1995 tutti i nomi con relativi certificati penali sono stati trasmessi alla prefettura e la cooperativa è stata iscritta nel registro prefettizio”.
I primi problemi arrivano nel 2003 quando vengono fuori le posizioni, segnalate dalla prefettura, di Nino Spadaro e Girolamo Buccafusca, condannati per mafia. Così la cooperativa Clp ha votato l’estromissione dei due mentre per quanto riguardava le partecipazioni nella New Port, società di capitale, l’esclusione non poteva essere coattiva e quindi “si è proceduto all’invio di formale invito a procedere alla cessione delle azioni di cui essi risultano titolari”, come si legge nella comunicazione inviata dalla società alla prefettura il 23 dicembre 2003. Il 18 ottobre 2004 a Nino Spadaro vengono sequestrate le quote societarie che, però, gli vengono restituite il 25 settembre 2009. “Erano state ‘conferite per trasformazione’ – spiega Spataro – ovvero le quote non erano state materialmente pagate da Spadaro. Gli erano state attribuite perché derivavano dal patrimonio della compagnia lavoratori portuali prima che si trasformasse in società. Quindi i motivi che avevano fatto decadere Spadaro da socio sono venuti meno. Buccafusca, invece, ha messo in vendita le quote della spa ma nessuno le ha comprate”.

I nomi e le storie
I problemi si riaffacciano nel 2010. Questa volta, però, sono 24 i soci sospettati di “mafiosità”. E si comincia dagli stessi due: Nino Spadaro e Girolamo Buccafusca. “Le mie colpe ce le ho ma ho pagato, in carcere ho anche preso una laurea in scienze giuridiche – racconta quest’ultimo a ‘S’ – Non sono più un lavoratore della New Port dal 2003 e sono pronto a fare passi indietro e vendere le mie quote per salvaguardare i miei ex colleghi”. Nino Spadaro, invece, è ancora in carcere. Nel frattempo, però, è possibile parlare con il cugino Nino, colpevole a suo dire solo di “omonimia”. Nell’informativa della prefettura, infatti, viene indicato come condannato in via definitiva a 11 anni e 6 mesi (sentenza della Corte d’assise del 10/12/1990). Una sentenza che riguarda l’altro Nino, che è, in qualche modo, un “figlio d’arte”: suo padre è Vincenzo Spadaro, suo zio Masino Spadaro, il “re” della Kalsa. Ma lui è incensurato. “Nino è mio cugino, Vincenzo è mio zio. Non ho mai avuto alcuna condanna e mio cugino Nino non lo vedo da trent’anni perché è in carcere a Spoleto”, dice.
Ma Buccafusca e Spadaro sono solo due dei soci chiamati in causa. Gli altri attendono nervosamente di parlare, hanno voglia di dire la loro verità. Come Mario Ficarra, che ha ceduto le sue quote alla moglie, Rosalia Li Greci, per incompatibilità con altre partecipazioni. “Mio padre ha subito una condanna in primo grado ed è morto nel 1982”. Allora Rosalia Li Greci aveva appena 11 anni: “Non l’ha mai conosciuto” aggiunge Ficarra, che ha sposato la donna nel 1988. Un altro che si sente ingiustamente accusato è Carlo Cangemi. “Mio fratello Giuseppe – racconta – ha subito un processo per mafia, in quanto ritenuto affiliato alla famiglia di Brancaccio ed è stato assolto 5 anni fa. Dopo un mese mio padre è morto e l’aveva preannunciato quando era stata emessa la sentenza: ‘adesso posso morire in pace’”. Nell’informativa che lo riguarda si sottolinea la compartecipazione in altre società operanti nel porto, causa di incompatibilità, ma Cangemi nega e ribatte: “A 15 anni sono entrato nell’Azione cattolica, nella quale tuttora milito frequentando la chiesa di Santa Teresa alla Kalsa. Oggi ho 54 anni e faccio casa, lavoro, chiesa e volontariato alla Lilt (Lega italiana per la lotta ai tumori, ndr). Anche mia moglie fa volontariato alla cooperativa ‘Incontro’, recuperando dalla strada i ragazzini dello Sperone”.
Poi c’è Mario Montalbano: la prefettura segnala che questi era socio di Sebastiano Crivello e Giuseppe Urso (ambedue condannati) in un’azienda che “praticamente è rimasta inattiva: aperta nel 1982, è stata chiusa nel 1983”. Nella sua storia c’è anche una denuncia contro gli usurai che gli è valsa un risarcimento liquidato dalla stessa prefettura. “Uno dei miei tre figli ha fatto il militare nella guardia di finanza”, si vanta. Nel frattempo, il 22 aprile scorso, il suo usuraio è stato condannato.
Più semplice la vicenda di Erasmo Fiore: “Nel 1994 mio fratello Giovan Battista è stato arrestato per mafia in quanto legato alla famiglia di Borgo Vecchio. È stato assolto e io sono in pensione dal 1996”. Più intricata, invece, la vicenda di Salvatore Macaluso: secondo la prefettura è stato indagato con la moglie per riciclaggio, estorsione e traffico di stupefacenti. La donna, Maria Antonietta Collura, amministrava la “Carta ingross” che era ritenuta dagli inquirenti nella disponibilità del boss dell’Acquasanta, Angelo Galatolo. A Macaluso sono attribuiti anche rapporti di affinità con uomini d’onore della famiglia di Borgo Vecchio. “La moglie di Galatolo – racconta a ‘S’ – ci ha dato mandato di rappresentanza della sua azienda per due mesi. Poi è scattato un sequestro per 5 aziende, fra cui la ‘Carta ingross’. In pratica ci hanno considerati prestanome. Il sequestro è avvenuto nel 2004 e nel 2010 c’è stato il dissequestro e la società ci è stata riconsegnata. Di quello che c’è scritto non ne so nulla, non sono stato mai indagato, non ho mai ricevuto avvisi di garanzia, né sono stato arrestato, né altro. Il mio casellario giudiziario dice ‘nulla’”.
Paradossale appare invece il caso di Maurilio Rubino: secondo l’informativa, suo cugino sarebbe Francesco Madonia, dell’omonima potente famiglia mafiosa del Nisseno. “Non li conosco, sono 40 anni che non frequento i parenti di parte paterna, ma questo parente, comunque, non esiste. Non c’è nessun Madonia”. Anche Girolamo Buccafusca, cugino omonimo del condannato, ha voglia di parlare: “Mio padre – dice – è stato condannato per truffa, contrabbando di sigarette e altri reati simili. Mio fratello è stato arrestato per traffico di droga. Mio padre è morto nel 2006, con mio fratello non ho più contatti da anni”. Drammatica, poi, la vicenda di Benedetto Messina: fratello di Silvana Messina, scrive la prefettura, moglie a sua volta di Giulio Di Luvio. Entrambi sono stati condannati per favoreggiamento della latitanza di Antonino Bosco. “Mio padre e mia madre hanno dato vita a 4 figli, fra cui io – spiega – ma mia madre è morta a 29 anni e mio padre ci ha lasciati dalla nonna materna facendo perdere le sue tracce. Da altre relazioni che ha avuto sono nate prima due figlie, poi altri quattro. Le altre due donne di mio padre sono morte anche loro. Io non ho mai avuto a che fare con questi, non so neanche se siano vivi. Mia sorella di sangue lavora nelle forze dell’ordine, l’altro mio fratello ha due figli nell’esercito. Chi mi conosce mi prende in giro per tutta questa storia”.
Un’altra storia è quella di Ferdinando Parrinello: a lui sono state sequestrate nel 1993 le quote della Brancagel, ditta che si occupava di surgelati. Il titolare della ditta era il suocero, Martino Brancatelli, accusato di traffico di droga e legami con Cosa nostra, che aveva distribuito le quote tra i familiari. “A scagionarlo – spiega Parrinello – è intervenuta un’infiltrata della polizia che ha detto come non c’entrasse nulla. Mio suocero è stato assolto dopo tanti anni e le quote sono state restituite insieme ai beni dell’azienda”. Vicende familiari, come quelle di Vincenzo Toscano: suo cognato, Gaspare La Malfa, è ritenuto vicino alla famiglia di Brancaccio. “Ma io non ho mai avuto nessun tipo di rapporto con lui” specifica. Giovanni Giuliano è troppo indignato per parlare: “Ho dato mandato al mio avvocato” dice semplicemente. All’appello mancano altri nomi: Maurizio Gioè, Giuseppe Onorato, Filippo Arena, Giovanni Biscari, Francesco Alfano, Ferdinando Arcuri, Antonio e Giuseppe La Mattina: nella maggior parte si tratta di casi di scomode parentele indirette, cognati o generi. Tutti, però, sottolineano in egual maniera come siano lavoratori di fatica: le loro mani callose quasi tremano mentre tengono in mano la nota del prefetto. Alcuni sorridono amaramente, ma altri non riescono a trattenere le lacrime. Adesso rischiano il loro posto di lavoro.

La soluzione
“Noi siamo questi” continua a dire con orgoglio e anche un po’ di commozione Vincenzo Spataro. “Quando si doveva tirare fuori il carro di Santa Rosalia dagli hangar del porto siamo intervenuti noi. Ci chiamano da tutte le parti della Sicilia per avere consigli che noi diamo senza batter ciglio. Siamo intervenuti per fare il piano regolatore generale della città. Noi siamo questi”. E la domanda che ricorre è sempre la stessa: ma se i soci sono rimasti sempre gli stessi 209, perché questa storia è venuta fuori solo ora? Secondo Spataro potrebbe esserci un disegno dietro tutta questa storia, un progetto che vuole la New Port fuori gioco per l’ingresso di nuovi player.
Sorride amaro Spataro nel constatare che “chi oggi si riempie la bocca e punta il dito, ieri era a braccetto con me”. I nomi bisogna tirarglieli fuori dai denti: Giuseppe Lumia – a fianco del quale si è candidato al consiglio comunale di Palermo riuscendo a ottenere il seggio – e Carlo Vizzini che, da ministro della Marina mercantile, lo teneva in altissima considerazione e gli ha anche chiesto di candidarsi a suo sostegno. “Noi abbiamo investito sulla realtà di Termini Imerese rispettando il territorio”. Ma, secondo Spataro, è da lì che cominciano i guai. “Questo porto che viene sempre sponsorizzato come un importante hub sul Mediterraneo, alla fine non porta risultati, come l’ultima operazione con la T-Link, società con un buco da 20 milioni e un debito nei nostri confronti di 1milione 200mila euro”.
Sulla vicenda è anche intervenuta Confindustria Palermo per bocca del suo presidente Alessandro Albanese che a “S” ha spiegato che non c’è l’intenzione di ingerenza nelle vicende del porto di Palermo. “Deve essere chiaro che noi non vogliamo favorire nessuno, né nostri soci né nessun altro, semplicemente contribuire a sanare questa situazione”. La proposta: “Una newco con tutti i lavoratori ma senza i 24 segnalati dalla prefettura. Se gli operai fanno la società siamo anche disposti a ospitare la loro sede in Confindustria”. Una soluzione che, però, Spataro ha già prospettato tramite la creazione di due nuove società che rilevino i rami d’azienda: la PortItalia – per le operazioni e servizi commerciali nel porto di Palermo e Termini – e la Tcp che si occuperebbe del movimento dei container. Società già fondate da 10 soci ciascuna con un aumento di capitale destinato a terzi. In queste due società dovrebbe confluire i lavoratori-soci, esclusi i 24. E nello statuto di fondazione ecco la clausola che metterebbe fine a situazioni di imbarazzo: i soci possono essere esclusi per giusta causa in caso di condanna passata in giudicato per ricettazione, riciclaggio, insolvenza fraudolenta, bancarotta, usura, sequestro di persona, rapina e associazione mafiosa.


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