Un marito uccide la moglie in quel di Catania; dopo qualche giorno è una moglie ad assassinare il marito nel sonno a Palermo. A un femminicidio segue un maschilicidio. Affiorano ricordi di scuola ormai nebulosi: “S’ode a destra uno squillo di tromba;/a sinistra risponde uno squillo”. E, a cascata, si snocciolano luoghi comuni che è difficile filtrare criticamente. Innanzitutto: lo vedi che non sono solo gli uomini a uccidere le donne? Domanda retorica del tutto superflua.
Nessuno ha mai sostenuto che le donne non siano capaci di assassinio (le tragedie greche abbondano di esempi) né che, se uccidono, abbiano sempre dalla loro buoni motivi per farlo. I numeri però sono numeri: e la sproporzione statistica fra i due generi di delitti s’impone implacabilmente. Scatta allora la domanda di riserva: perché prima queste cose non succedevano e oggi sono all’ordine del giorno? (Subito dopo si aggiunge di solito: ormai non ci sono più i “valori” di un tempo…).
Mi piacerebbe sapere a quale “prima” ci si riferisca: dieci, cento o mille anni fa? Perché ogni generazione ha conosciuto coniugi che avvelenano, accoltellano, strangolano…insomma ammazzano il proprio congiunto: da quando ho memoria – diciamo da mezzo secolo in qua – si è appreso di omicidi intrafamiliari; indietro nel tempo, sovrani illustri hanno pagato sicari disposti a sostituire incerte cause di divorzio; su su fino alle tragedie latine e greche con Medea che, per vendicarsi del marito, arriva addirittura a uccidere i due figli avuti da lui. Allora cerchiamo di mantenerci lucidi distinguendo i mali reali della nostra epoca (che ci sono, e sono gravi) dai mali percepiti (che sono i mali reali amplificati da un sistema massmediatico che raggiunge un pubblico assai più vasto del passato in tempi inimmaginabilmente più rapidi).
Dipanati questi e simili equivoci (i delitti nel mondo occidentale contemporaneo sono in calo rispetto al passato anche recente), restano sul tappeto dei fenomeni oggettivi che attendono di essere analizzati. Prima di tutto evitando le improvvisazioni, come quando – in base a qualche antidepressivo rinvenuto nell’abitazione della persona che ha assassinato – si parla subito di “raptus” (con l’illusione che, se di pazzia si tratta, non può capitare nulla di simile a noi “sani di mente”).
La questione è più complessa: la punta dell’iceberg rimanda alla parte sommersa che è un sistema culturale, etico, simbolico, politico, sociale, economico nel quale – come avvertiva Kant più di due secoli fa – si tende a usare le persone (per non parlare degli altri senzienti) come se fossero cose, mezzi, strumenti per i nostri fini. Quando uno strumento non funziona più, o non funziona bene come prima, lo si getta tra i rifiuti: pazienza se è una compagna di vita che vuole lasciarci, un figlio problematico che ci delude, un socio in affari poco efficiente, un creditore che reclama il suo denaro, un dipendente in nero che si è fatto male sul lavoro…
La terapia per riaprire gli occhi sulla dignità di ogni essere vivente non è meno difficile della diagnosi. I credenti tendono a puntare sul ritorno delle religioni, ma sarebbe sin troppo ovvio osservare che prima della secolarizzazione attuale le cose non andavano per nulla meglio; che esse hanno contribuito a costruire il sistema attuale; che, senza una radicale revisione autocritica, non contribuiranno a cambiare in meglio la situazione.