Uomini, sbarre e resurrezioni | La Via Crucis dell'Ucciardone - Live Sicilia

Uomini, sbarre e resurrezioni | La Via Crucis dell’Ucciardone

Una celebrazione particolare. Dietro i cancelli del carcere vecchio.

PALERMO- Uomini vestiti per il mezzo tempo, tra scirocco e nuvole sotto il cielo scuro di Palermo. Camminano in silenzio. Uomini in camicia bianca, in fila. Mormorano una preghiera. Sono persone simili per sguardi, cuori celati, emozioni e intelligenze. Ma c’è una differenza. I primi, stasera, torneranno a casa, gli altri resteranno qui, nelle celle del carcere Ucciardone e il cielo lo vedranno a spicchi. Non accarezzeranno i figli, non chiederanno alle mogli cosa c’è per cena.

Venerdì Santo, nel carcere vecchio va in scena la Via Crucis dei detenuti ed è un incrocio che mette insieme la grande paura della costrizione, il mistero insolubile della colpa e il candore disperato dell’innocenza: perché – per i tortuosi snodi della giustizia – ci sarà pure qualche innocente quaggiù. E ci sono gli agenti di polizia penitenziaria, anche loro padri, figli e mariti, a loro volta rinchiusi, senza avere commesso nulla di male.

La direttrice dell’istituto è una donna nota per la sensibilità e la competenza. Si chiama Rita Barbera, ovunque è andata ha cercato di seminare germogli di umanità nella sede disumana della pena. Non è facile: qui non c’è la matematica giudiziaria con le sue astrazioni. Qui c’è carne, carne dolente, colpevole e innocente. E c’è il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che stringe mani, che consola, che saluta, che sembra pure lui il papà di tutti i ragazzi che partecipano alla funzione e degli altri che seguono. C’è l’assessore alle Attività sociali, Giuseppe Mattina.

Un ragazzo esile e muscoloso regge una croce monumentale, impersonando il calvario di Cristo. Come si chiama? Le stazioni si susseguono orchestrate dal magnifico mentore di attori talmente speciali, il regista Lollo Franco che ha consacrato la sua ‘putìa d’arte’ a Malvina, figlia amatissima e perduta. C’è Oscar Pizzo per il Teatro Massimo che bada al coro.

Il carcere si apre ai visitatori intimoriti. C’è chi tra gli spettatori ha portato i figli bambini ad assistere. E ha fatto bene: quando impareremo, fin da piccoli, che lo sbaglio accertato comporta una condanna non l’annullamento, il carcere sarà un posto migliore, come la città che lo osserva, da lontano, per indifferenza. Qui non ci sono granelli di polvere sotto il tappeto. Ci sono uomini. C’è carne. C’è anima. Qualcuno dei detenuti saluta, altri fanno in modo di non incontrare lo sguardo degli ospiti occasionali: troppo forte è l’idea che quegli altri ritorneranno a respirare il cielo senza ostacoli.

Lassù si intravvedono gli interni delle sezioni. Panni stesi. Muri giallo-galera. Sbarre, sbarre, sbarre. La crocifissione. Il coro canta ‘Il testamento di Tito’: “Nei letti degli altri già caldi d’amore non ho provato dolore. L’invidia di ieri non è già finita: stasera vi invidio la vita”. Ma come si chiama il ragazzo che finge il lamento di Cristo? Nessuno risponde. La morte scende, con un applauso che è già liberazione, resurrezione. Leoluca Orlando stringe ancora mani. Lollo Franco abbraccia e manda baci.

Oltre il portone, con il tonfo consueto, per il ritorno. La sera di Palermo è un concentrato di profumi che azzannano il cuore, di gente che cammina, inconsapevole della sua libera felicità. Ma come si chiamava il ragazzo che faceva Cristo? Si chiamava Cristo.

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