PALERMO – Quando esce dal Palazzo di giustizia Fabrizio Miccoli è provato. Visibilmente provato. Testa bassa e via verso l’uscita secondaria. Inutile provare a farsi largo superando i carabinieri che tengono a bada i giornalisti che cercano di strappargli una dichiarazione. Niente, la sua bocca resta cucita. E abbandona il Palazzo. Non si aspettava un lungo, lunghissimo interrogatorio. Lo dimostra il fatto che aveva convocato una conferenza stampa per le 18 e 45 all’hotel Excelsior. Sarà costretto a rinviarla alle 10.30 di domani per cause di forza maggiore.
Inizia a rispondere alle domande dei pubblici ministeri pochi minuti prima delle 16 per smettere alle 20 e 30. Più di quattro ore e mezza di interrogatorio nel corso del quale cerca di spiegare, punto per punto, tutti i passaggi che gli vengono contestati dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Francesca Mazzocco e Maurizio Bonaccorso. Miccoli si difende e anche tenacemente. Resta da capire se avrà convinto o meno i pm. Ci vogliono due pause per spezzare il ritmo serrato dell’interrogatorio. Una se la prendono i pm bevendo un caffè, ma restando nella stanza del procuratore aggiunto. L’altra, Francesco Caliandro, legale di Miccoli. Giusto il tempo di fumare una sigaretta in corridoio.
Il pomeriggio di Miccoli in Procura inizia dribblando i pochi cronisti presenti al Palazzo. La stragrande maggioranza attenderà una conferenza stampa che mai inizierà. Pantaloni a pinocchietto verdi, t shirt con una vistosa stampa, scarpe da ginnastica: la mise di Miccoli è la stessa di un ritiro precampionato o di uno dei tanti post partita. Stavolta gli tocca una convocazione in Procura, dopo arriva essere entrato da un ingresso secondario. Da qui per le scale al secondo piano nella stanza di Agueci. Gli uffici della Procura sono off limits. Una decina di carabinieri tiene i cronisti a distanza. Le porte blindate si chiudono. Vietato l’accesso. Dopo un paio d’ore di interrogatorio, un falso allarme. Uno dei pm esce dalla stanza. Vi farà ritorno pochi minuti dopo con un grosso faldone di carte. Le carte dell’accusa.
Il calciatore risponde di estorsione e accesso abusivo ad un sistema informatico. Nel primo caso si sarebbe rivolto al figlio del boss mafioso Antonio Lauricella, suo amico, affinché lo aiutasse a recuperare alcune somme di denaro. Nel secondo, si sarebbe fatto dare da un rivenditore quattro schede telefoniche intestate a ignari clienti. Miccoli non si avvale della facoltà di non rispondere. Accetta il confronto con il pubblici ministeri che gli chiedono anche conto e ragione della sue amicizie con Mauro Lauricella e forse pure con il nipote di Matteo Messina Denaro. L’obiettivo è capire se le amicizie, confermate in sede di interrogatorio e su cui nulla può esserci di penalmente rilevante, siano sfociate in altro. Come nel caso della presunta estorsione, ad esempio. Poi, quando le luci sono quasi tutte spente Miccoli si allontana. A testa bassa. “Si sente di dovere chiedere scusa ai familiari di Giovanni Falcone?”. “Si aspettava un interrogatorio così lungo?” I cronisti alzano la voce per farsi sentire dal calciatore e dal suo avvocato stoppati dal servizio d’ordine dei carabinieri. Le loro bocche restano cucite. Dall’inizio alla fine di un lungo pomeriggio in Procura.