“Enzo stava indietro due passi, ma in alto su tutti. Andava avanti, sempre mantenendo un approccio con il lavoro di alta qualità e curando ogni singola persona come fosse unica. I fatti fanno la storia, e non le parole. Lui ha fatto la storia del maxi-processo, creando un lavoro di squadra”.
Al telefono, la voce di Esther Ajello è un impasto di tante cose. C’è il coraggio, c’è l’amore che la scomparsa di Enzo ha privato dell’abbraccio, senza attenuarlo. E c’è l’amarezza, nelle parole di questa signora mite e risoluta, moglie di Vincenzo Mineo, direttore dell’aula bunker, intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
“E’ sacrosanto – dice la signora Ajello – che due eroi civili come Falcone e Borsellino vengano ricordati. Ma non si dovrebbe dimenticare il resto come, mi sembra, stia accadendo, se rifletto su certe omissioni. Penso ad Alfonso Giordano, che ebbe il coraggio di presiedere quel processo così innovativo. E penso a Vincenzo Mineo, sì, al mio Enzo, che ci ha lasciati troppo presto. La mia non è una protesta contro qualcuno, né una lamentela. Ma mi procura amarezza constatare che ci sono pezzi importantissimi di storia trascurati, o, almeno, non valorizzati come sarebbe giusto. Mio marito aveva le chiavi dell’aula bunker. Si occupò dell’organizzazione e divenne, suo malgrado, un possibile bersaglio mobile. Va ricordato”.
Nel racconto di Esther, che, adesso, ci decidiamo a chiamare per nome, con il rispetto dovuto a un’amica di questa città, come suo marito era amico di Palermo, scorrono le immagini di quegli anni e la sofferenza di chi li visse in trincea, familiari compresi.
“I bambini, i nostri figli – dice lei – sapevano che il papà lavorava in tribunale e niente di più. Vigeva il massimo riserbo che rappresentava l’unica probabilità di sicurezza. Enzo usciva da casa alle sette del mattino e tornava alle dieci, a mezzanotte, alle tre… Oppure non tornava. Era il perno della logistica, di tutto. Ricordo una sera, quando arrivò Buscetta. Mi raccomandò: ‘Chiuditi dentro, con i bambini. Verrò io a dirti quando siete liberi’. A casa piovevano telefonate di minacce e di insulti, le prendevo io. Ho cercato di nascondergliele, per non farlo preoccupare, ma era troppo intelligente per non capire. Infatti, lo capì”.
E poi c’è una memoria ancora più indelebile. “Eravamo a Roma, di venerdì. Lui doveva andare dal dottore Falcone che, qualche giorno dopo, sarebbe morto nell’attentato di Capaci, con la moglie, Francesca Morvillo, e la scorta. Eravamo insieme con nostra figlia, Mariangela, che era una bambina. Enzo disse: ‘Aspettate un attimo che vado da Falcone’. Aspettammo un’ora e mezza, io e Mariangela, in una chiesa. E pregammo per il giudice Giovanni, nelle nostre preghiere gli davamo del tu. Enzo tornò, sorridendo: ‘Falcone mi ha rimproverato, perché non vi ho portate con me. Dottore Mineo, mi ha detto, la prossima volta mi faccia conoscere sua moglie e sua figlia…’”. E qui la voce di Esther si interrompe. E qui si sente un pianto attutito, sommesso e lancinante. Non ci sarebbe mai stata nessuna prossima volta. (Roberto Puglisi)