La luce a quattordici anni - Live Sicilia

La luce a quattordici anni

Via Libertà aveva alberi grandissimi che guardavamo dal basso. E un'aria, un nonsocosa di luminoso, ci invadeva. La luce era intellegibile. Metteva i suoi raggi al confine col nostro cuore, preparando l'ingresso.

C’era questa strada verso casa. Da ragazzo, era bello farla a piedi, disdegnando l’autobus numero 4 che passava davanti alla fermata della scuola. Troppo affollato quell’autobus. E troppo sudato. Si camminava con Antonio N. lungo via Libertà, tagliando per viale Campania. Lui si fermava in via Dei Nebrodi. Io continuavo fino a piazza Europa Tredici. Chiacchieravamo. E dicevamo le bugie. Antonio era un rockettaro, io un classico talebano. Ognuno le sparava grosse, confidando nell’ignoranza di settore dell’altro. Antonio: “Sai, ieri ho scritto una canzone. Te la canticchio?”. E salmodiava Let it be. Ma l’avrei scoperto anni dopo. Per una precisa scelta culturale non ascoltavo autori successivi al 1886, con rare e melodrammatiche eccezioni. Io, per un intero biennio ginnasiale, gli spacciai per mie in sequenza: la ‘Sinfonia dal nuovo mondo’ di Dvorak, ‘O mio babbino caro’ di Puccini (che cantavo in falsetto), alcune sonate per clavicembalo francesi che mi piacevano tanto. Con Beethoven effettivamente rischiai. Chi non conosce l’incipit della Quinta? Presi coraggio: “Ho scritto ieri l’inizio di una sinfonia. Fa così: bo bo bo bom (daccapo) bo bo bo bom”. Antonio mi guardò stupito con molto rispetto. Se l’era bevuta. In compenso finsi di credere che fosse sua ‘Avrai’ di Baglioni. Impossibile non averla sentita da un juke box estivo anche per un quattordicenne che si era fermato al 1886.

Via Libertà aveva alberi grandissimi che guardavamo dal basso. E un’aria, un nonsocosa di luminoso, ci invadeva. La luce era intellegibile. Metteva i suoi raggi al confine col nostro cuore, preparando l’ingresso. Infine, lentissima, irresistibile, colava goccia a goccia per occuparlo tutto. Viale Campania era l’apice di quella luce ignota dei quattordici anni. Le ragazze non ci filavano perché eravamo brutti, goffi e malvestiti. Io indossavo severissimi maglioni da primo della classe e pantaloni color cassa da morto. Antonio… Bè, Antonio: praticamente Elvis Presley devastato dai brufoli. Le ragazze, sì, erano bellissime. Avevano un po’ a che fare con quella luce struggente. Erano della stessa materia. Della stessa stoffa che si sarebbe smagliata.

Se non andavo a piazza Europa Tredici, a casa mia, mi fermavo dalla nonna in via Giacinto Carini. Mi accomodavo in salotto. Piazzavo sul piatto il clavicembalo francese. Socchiudevo gli occhi. Respiravo piano, mentre figure che non avrei più rivisto prendevano forma dietro le mie palpebre. Mi percepivo parte di un mondo infinito che avrei conquistato di lì a poco, quando la luce mi avrebbe benedetto con la sua grazia perenne. Sul balcone c’erano i gerani. Una rossa bandiera che annunciava il ritorno.

Ora chissà dov’è finito tutto. I gerani sul balcone della nonna non ci sono più. Se incontrassi Antonio gli confesserei che la Quinta di Beethoven non è mai stata scritta da me. Non c’è più il quattro. Non c’è più la luce dei miei quattordici anni, con i suoi odori e le sue figure misteriose. Eppure era qui con me. Era nella mia anima di ragazzo. Sfavillava come Trilly nella mano di Peter Pan. C’era, appena un attimo fa.


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