Veronica e altre crudeltà - Live Sicilia

Veronica e altre crudeltà

Una donna accusata della crudeltà più atroce che c'è, al centro della scena. E le altre crudeltà nascoste, che tutti fanno finta di non vedere.

Il delitto, la colpa, l'innocenza
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7 min di lettura

Il colpevole è uno specchio in cui il resto del mondo ama riflettersi per dichiararsi innocente. Forse Veronica Panarello è colpevole della morte per strangolamento di Loris, suo figlio. Forse è, come ha scritto il Gip, una donna: “dall’indole malvagia”. Ma ci sono altre crudeltà nel delitto di Santa Croce Camerina, frammento topografico talmente minuscolo che potrebbe essere preso in mano e rivoltato, come una palla di vetro natalizia – le snowball con un paesaggio invernale al loro interno – per vedere turbinare lacrime e neve.

Crudele è stata la riduzione in schiavitù della verità a vantaggio dello spettacolo. L’inviata di ‘Pomeriggio Cinque’ e il pensionato Enel, Orazio Fidone, lo scopritore del corpo del bambino, chiamato, in favore di telecamera, ‘il Cacciatore’, protagonisti del noto siparietto svelato da ‘Striscia’. Ridicola e crudele è apparsa la finzione dell’incontro fortuito nella piazza del paese, nella riduzione della verità, della vita e dei sentimenti delle persone a sceneggiatura da riscrivere. L’Inviata e il Cacciatore non più con il cappellaccio, con la coppola da pensionato Enel, sovrapponibili a Totò e Peppino nella pantomima della lettera, in un rimando di sguardi d’intesa. “C’è stata una grande moria delle vacche” – “Allora le dico io quando passare” – “Quando faccio così chiamate il cacciatore”. Non si distinguono Totò e Peppino dalla realtà, l’artificio di chi costruisce una trama, una letterina, dal corso spontaneo delle cose. Un inganno perpetrato nei confronti dello spettatore, ridotto anche lui, con la verità, a marionetta inconsapevolmente sulla scena, a maschera di se stesso.

Crudele è stato quel volteggiare d’elicottero sulla casa degli Stival, nel giorno del fermo di Veronica, neanche ci fossero Totò Riina, il mostro di Firenze e Bin Laden ad attendere, dietro la porta, il compimento delle manette. A confronto la crudeltà mediatica subita da Enzo Tortora fu un’esibizione per pochi intimi. Quell’elicottero che si alza in volo, con una funzione precisa nella drammaturgia giudiziaria. Segno che qualcosa sta ‘finalmente’ cambiando, che sta per manifestarsi la svolta agognata dai cronisti assiepati in strada. Ore sprecate a intervistare il Cacciatore-pensionato, i vecchietti del bar, i vicini, i cani in transito. Ed ecco che l’elicottero ‘finalmente’ si solleva, diventando il deus ex machina degli accadimenti che verranno, comunicando, con un fruscio di sipario, il colpo di scena.

La cronaca si fa rapsodica, istantanea. I corrispondenti centellinano la Grande Attesa dell’evento, disseminando la narrazione di molliche di pane. C’è il nonno dietro l’ombra che compare alla finestra? Qualcuno traffica con le imposte, chi? Si avverte un odore di ragù. E le analisi del sangue? E si può sapere com’è andata la pipì al mattino? E i gerani? Che dicono i gerani al balcone? (c’è sempre un vaso di gerani al balcone, nelle vicende di sangue, analisi, balconi e gerani, nella snowball in cui nevica la quiete di una tranquilla tragedia familiare). Si apre il portone, ne esce una figurina minuta nelle forme, smisurata nell’interesse: Veronica Panarello, col cappuccio, la stessa madre, raffigurata da Madonnina in lacrime sul luogo del ritrovamento del cadavere. Stavolta è diverso. Stavolta – ancora ufficialmente non si sa però è chiarissimo – la stanno arrestando. Siamo all’unificazione dei pezzetti sparsi in un canovaccio teatrale unico. Gli slip, le indiscrezioni, la presunta (e smentita) violenza sessuale, i nascondimenti e le evidenze, tutto declina in un volto, in una sentenza che stampa e pubblico considereranno, da quel momento in poi, acquisita: è stata la madre. Il sorriso di Loris scompare, appaiono, sotto i riflettori, gli occhi di Veronica.

Crudele è stata la mancanza di pietà che compagni di pena, i detenuti del penitenziario di Piazza Lanza, a Catania, hanno riservato alla prigioniera incappucciata, accogliendola con una battitura di insulti e un grido: “Assassina”. Amara latitanza in coloro che praticano il dolore delle sbarre, che si considerano vittime – e lo dichiarano, a prescindere perfino dai pronunciamenti della Cassazione – e che non hanno ritenuto di aspettare, nel caso della mamma di Loris, neanche una sentenza di primo grado, per il verdetto. I carcerati di Catania, copia conforme del mondo che li vuole colpevoli, pur di specchiarsi nell’innocenza.

La crudeltà definitiva – la crudeltà oggettiva dell’abbandono – si è condensata intorno alla famiglia che ha separato Veronica Panarello da sé e l’ha espulsa nel momento più duro, giudicandola senza un dubbio. I parenti hanno replicato nelle conversazioni agli atti o nelle chiacchierate riportate sui giornali la tendenza dissezionatrice delle maschere di ‘Pomeriggio Cinque’.  Basta riascoltare. Telefonata tra Carmela Anguzza, mamma di Veronica e la nonna materna: “Allora perché non l’ha detto prima che è stata in quel posto là. Perché non l’ha detto la mattina che lei era stata lì la mattina…” – “Sei minuti è stata dove è morto il bambino…” – “Il tempo di buttare il bambino di sotto…” – “Perché per buttare l’immondizia non ci vogliono sei minuti…” – “Ma che ne so perché l’ha ucciso mamma… io ho l’impressione perché perché somiglia a me.. mi odia così tanto questa disgraziata…” – “Ma lei non l’ha fatto da sola questo, ci sarà un complice… Da sola ha fatto tutto, può essere? Non può essere”.  Carmela, in seguito, ha mostrato maggiore indulgenza per la figlia.

Le parole della sorella, Antonella Panarello: “Della morte di Loris mi ha colpito molto la frase che mia sorella mi ha detto: ‘ora lo portano a casa’, senza dire altro”- “E poi ha anche accusato nostra madre di averlo preso lei il bambino” – “E’ evidente che non c’è con la testa” -”In un momento così difficile, pensava a mandare via me e nostra madre e non al dramma che tutti in quel momento stavamo vivendo”.

Soffia la condanna, nelle crepe dell’interno familiare, tra bisbigli spiati e frasi esplicite.  Non c’è pianto per il bimbo assassinato e gettato “di sotto”. Non una mollica di intimità, una traccia rancida di tenerezza, per una “disgraziata” che è pur sempre moglie, figlia, sorella e madre. Non c’è nemmeno la rabbia dello strappo. Il ritmo ha la cadenza di ciò che è televisivo, nella riduzione in schiavitù della verità, del rotocalco pomeridiano, del Canone Dursesco. Non ci sono più affini e consanguinei, solo platea in studio, un coro accecato a corolla dello show.
Non c’è più un paesino topograficamente distinto. Sotto la nevicata di sguardi, Santa Croce diventa, nel presepe continuo della diretta, il crudele teatro dell’inquisizione appena dissimulata. I suoi abitanti assumono le sembianze di ectoplasmi, zombie da intervista, illuminati a turno da un secondo di celebrità. A domanda rispondono col gesto noncurante di chi accusa senza darlo a vedere e si scrolla di dosso ogni fardello: “Lei sembrava una brava mamma, però… – e nei puntini di sospensione viaggia un vagone carico di sottintesi – Noi? Che c’entriamo noi? Noi siamo innocenti”.

In mezzo a tante letterine fasulle, tra la maschere di Totò e Peppino, di cacciatori e di inviate, di Torquemada del ragù, c’è una lettera vera. “Caro Davide, sono amareggiata profondamente dal comportamento che hai avuto nei miei confronti. Come puoi credere che io abbia potuto uccidere nostro figlio? Tu sai che mamma sono stata io e quale affetto abbia avuto per i nostri bambini, è un’atroce sofferenza la morte di Loris, così come atroce sofferenza è la mia carcerazione. Mi sento sola e abbandonata da tutti. Oggi è il compleanno del nostro figlio più piccolo ed anche a lui va il mio pensiero. Sono innocente, assolutamente innocente, ti prego di credermi. Io so che tu nel tuo cuore mi consideri innocente”. Veronica scrive al marito Davide Stival, dimostrando, nel bene e nel male, di essere rimasta umana nel palcoscenico delle maschere, almeno lei. Reclama la propria purezza, nel difficile tentativo di diradare i numerosi elementi che la rendono fortemente sospettabile. In controluce, sullo sfondo delle cronache dell’abbandono (“mi sento sola e abbandonata”), fa di più. Addita gli artefici della lontananza, coloro che avrebbero dovuto proteggerla. Chiede vicinanza senza condizioni. Stammi accanto, tu che mi ami, se ancora mi ami. Credimi – implora -, tienimi con te.

Forse Veronica Panarello è colpevole della morte per strangolamento di Loris, suo figlio. Forse il colpevole è uno specchio in cui il resto del mondo ama riflettersi per credersi innocente. Ma se qualcuno lancia un sasso nel riflesso delle crudeltà, lo specchio si rompe. Colpevolezza e innocenza vanno in frantumi insieme.

 


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