La ‘malattia dei sentimenti’ - Live Sicilia

La ‘malattia dei sentimenti’

Oggi l’incomunicabilità è una vecchia amica, sappiamo che c’è, e che ci fa visita quando siamo così fortunati da non avere ospiti peggiori.

Nell’immaginario collettivo, che cataloga ed etichetta per stereotipi, i siciliani sono grandi comunicatori; indifferenti a dominazioni millenarie come a odierne tragedie, appaiono ospitali e grandi parlatori.

Non tiene conto, la vulgata (diffusa quanto superficiale), che questo popolo ha due fasi genetiche: prima e dopo Luigi Pirandello. ‘Che mi viene a significare?’ direbbe il Commissario Montalbano. Che storicamente i siciliani sono stati, prima, padri di Pirandello e, dopo il suo avvento, suoi figli, consegnati non solo all’Isola, ma anche all’isolamento. Solo una etnia così risalente e composita poteva generare il drammaturgo che allestisce spettacoli mentre Freud appronta il suo setting per la terapia, usando il palcoscenico come luogo di prova, ove l’uomo contemporaneo anela ad essere processato, o persino massacrato, ‘straccio d’umanità’ esposto in un teatro dal quale non potrà più uscire. Se dopo il ‘grande viennese’, nessuno ha più potuto fare a meno di dare un’occhiatina nelle stanze buie dell’inconscio, il grande siciliano ha svelato una verità nascosta: parlate pure, se ne avete voglia; tanto, non vi capisce nessuno. E se si pensa a come fosse la società del primo Novecento, così salda sugli oleati cardini Dio patria e famiglia, c’è da definirlo coraggioso e iconoclasta profeta.

Oggi l’incomunicabilità è una vecchia amica; sappiamo che c’è, e che ci fa visita quando siamo così fortunati da non avere ospiti peggiori. Ha allontanato Dio, offuscato la Patria e rosicato la famiglia. Questo bel lemma morbido e sciolto, che, se non fosse per la finale accentata, comporrebbe da solo un pessoano ottonario, designa un aspetto del male di vivere; secondo una definizione da manuale, è l’incapacità soggettiva, o l’oggettiva impossibilità, di comunicare con gli altri, di stabilire e coltivare un rapporto di conoscenza, dalla quale deriva un sentimento di solitudine che spinto all’estremo può condurre all’alienazione. Un’assenza di dialogo, di confronto, che si tramuta in una condizione esistenziale.

Un paio di millenni prima di Pirandello, è un altro siculo a ‘inventare’ il concetto, il sofista Gorgia da Leontini, per il quale non vi è una verità universalmente valida e ‘nulla esiste; se anche alcunché esiste, non è comprensibile all’uomo; se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegabile agli altri (Gorgia, Della natura, DK fr. 82, B 3). Queste parole segnano l’atto di nascita del relativismo; e poiché il linguaggio è svincolato da ogni criterio di verità, il retore sofista se ne serve come strumento di comunicazione per affascinare l’interlocutore e per provare, secondo la propria convenienza, tutto e il contrario di tutto. E per dimostrare che ha sempre ragione, il che con l’incomunicabilità ha molto a che fare, specie in quei dialoghi che divengono soliloqui, quando un mite interlocutore ha poco da ribattere a quello più aggressivo, e soggiace all’eloquio di chi ne sa più di lui, o meglio, ne sa una più del diavolo. E se anche non sapesse nulla poco importa: chi è convincente e prevaricatore sa confondere l’avversario: peccato che si resti soli in due senza rendersene conto. Non vince nessuno.

Siamo isole di un arcipelago in un mare d’incomunicabilità, affermava un altro filosofo che scherzava poco. Ma più che dilettarci con le monadi leibniziane, in un’era in cui imperano le ricette, e più che di moti d’anima si discetta di cucina, proviamo un attimo a semplificare il discorso passando in rassegna gli ingredienti fondamentali. Per una comunicazione occorrono: due (o più) persone; un messaggio fatto di parole; la volontà di una delle due persone di renderlo intelligibile; quella di un’altra a riceverlo; aggiungere pazienza q.b. L’assenza di disponibilità da parte dell’interlocutore a ricevere il messaggio, o l’incapacità di decodificarlo, quando non si parla più la stessa lingua e, più che estranei, si diventa stranieri, traduce la comunicazione non condivisa in incomunicabilità. Capita a tutti di sperimentare spesso e in modo diretto cosa significhi non essere capiti. A volte perché non si è in grado di esprimersi, altre perché chi sente ma non ascolta erige una barriera insormontabile, svuotando di significato ogni parola. Desolazione e solitudine inducono a discendere i gradini del disorientamento, della negatività e infine, della rinuncia. E all’apatia talora può sostituirsi, come le cronache ci insegnano, una rabbia funesta.

In ‘Sei personaggi in cerca d’autore’, il padre pronuncia una celebre battuta: ‘Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!’. Non ci intendiamo mai. E’ davvero duro da accettare. Forse la realtà non è così estrema, almeno lo speriamo, ma le parole, di per se stesse, sono insufficienti. La pluralità della verità, tante quante sono le persone che la cercano, muta il rapporto con gli altri in un gioco di apparenze, privo di verità oggettiva. La realtà non appare più un dato sicuro che la ragione può recepire e dominare. L’individuo è posto di fronte ai suoi limiti: anche i principi più solidi possono essere messi in discussione. Il disagio che ne deriva è la malattia esistenziale dell’uomo moderno, nel malinconico tramonto delle forme e dei contenuti della tradizione.

E, in quanto è il linguaggio -verbale, corporeo, o persino dei segni- a costituirci come esseri sociali, esso richiede un codice adeguato affinché il processo di comunicazione non fallisca; ma più che dall’assenza di un ‘parlare’, l’incomunicabilità deriva dal non ascoltare. E ognuno di noi percepisce subito se l’interlocutore non è concentrato su di lui. L’ascoltatore distratto perde pezzi di discorso, non risponde a tono; fa e pensa altro. Anche in famiglia capita di sentire poca attenzione, di pronunciare la frase ‘cosa lo dico a fare?’. Si omette di andare oltre le solite domande sulla routine quotidiana, quasi che confrontarsi sui sentimenti o ripetersi parole affettuose sia pericoloso o imbarazzante. A lungo andare, si condivide solo l’organizzazione pratica del ménage familiare. E questo nel migliore dai casi, quando ci siano ancora le basi per una possibile convivenza. Abbiamo paura delle parole importanti, di ribadire quanto ci è cara una persona, quanto abbiamo bisogno di lei, come se fossimo eterni, come se ci fosse sempre un domani nel quale poter dire: ti amo tanto.

In quel report desolato e solitario sull’incomunicabilità che è ‘L’eclisse’ di Michelangelo Antonioni, magistrale opera dai dialoghi scarni quanto intensi, acuminate frecce che centrano invariabilmente il bersaglio, una straordinaria Monica Vitti, centrata sulla ineffabile malinconia del suo personaggio si chiede: ‘chissà perché si fanno tante domande. Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. O forse non bisogna volersi bene’. E’ il 1962. Il preludio del vuoto esistenziale, nato dall’incapacità di essere autentici e di amare, è sondato nel cupo finale; i protagonisti scompaiono dalla scena, mancando all’ultimo appuntamento, mentre, come ogni sera, la luce del sole si spegne. E’ appena scesa la notte o è un’eclisse?

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