CATANIA – I “Savasta”, un clan disciolto. Lo scrivono nero su bianco stamattina gli investigatori della Squadra Mobile descrivendo i particolari della cattura di Alessandro Censabella, figlio di Arturo “U Scenziato”, che negli anni Novanta è insieme al fratello Vito solo un gradino più sotto ad Antonino Puglisi, il boss che rappresenta il cespite mafioso del “clan” i Savasta di Catania. A Censabella ieri mattina lo ammanettano in via Cordai, nel cuore di San Cristoforo. Inutile il salto per evitare l’arresto: i poliziotti lo accompagnano in carcere con la ferita alla caviglia.
Un clan dissolto, dunque. Sparito. Spazzato via. Per posizionare cronologicamente la sua “estinzione” dal panorama mafioso catanese serve portare indietro l’orologio al decennio più sanguinario della storia di Catania. Una storia criminale che si intreccia con la ferocia vendetta di Giuseppe Ferone, il pentito killer chiamato “camisedda”. Pippo Ferone è un nome che fa tremare Catania. Temuto per la sua ferocia e spietatezza. Affiliato al gruppo di Pippo Sciuto “Tigna”, che nei primi anni ’90 sancisce un accordo criminale con i Laudani (i Mussi i Ficurinia) e i Savasta creando un cartello mafioso protagonista di una cruenta guerra di mafia.
Ad un certo punto Domenico Longo, legatissimo a Camisedda, bussa ad un imprenditore della zona industriale. C’è da pagare il pizzo. Quello che Mimmo Longo non sa è che ha sconfinato ed è andato a impicciarsi di affari dei Santapaola-Ercolano. Precisamente di Aldo Ercolano. L’imprenditore si muove e i Santapaola si rivolgono a Gaetano Laudani, in quel momento ai vertici dei Mussi. Figlio prediletto di Iano Laudani, il patriarca della cosca. La vicenda sembra chiusa. Ma o un errore di comunicazione o uno sfregio agli ordini di Tano Laudani portano Mimmo Longo a ripresentarsi da quell’imprenditore per incassare i soldi. Mette a soqquadro ogni cosa per ottenere i “piccioli”. La notizia arriva ad Aldo Ercolano. Tano Laudani perde di credibilità davanti all’uomo d’onore di Cosa nostra. E allora decide di ammazzare chi non ha eseguito le sue direttive.
Mimmo Longo muore crivellato di colpi. Durante un summit Tano Laudani chiarisce di essere lui il mandante di quell’omicidio: Pippo Sciuto e i Savasta accettano le spiegazioni del mafioso alleato. Ma intanto Pippo Ferone medita vendetta. E uccide. Uccide direttamente Tano Laudani. Un omicidio che scatena una guerra armata senza precedenti. L’obiettivo è “camisedda”. Che però riesce a sfuggire agli agguati. Ad un certo punto i Laudani riescono a strappare la promessa a Pippo Sciuto di “consegnarlo”. Ma stanchi di aspettare, bussano alla porta del capomafia dei Tigna. Il boss apre la porta e i killer sparano e uccidono. Poi Pippo Ferone viene arrestato. I Laudani vedono svanire l’obiettivo: uccidere Pippo Ferone. Allora decidono di colpire nel modo più duro il boss degli Sciuto. E violano ogni genere di codice mafioso. Chi è fuori dalle cerchie criminali deve restare fuori anche delle guerre di mafia. Non importa. Nel 1995 il padre e il figlio di Ferone sono uccisi. La scena del corpo senza vita del papà di “Camisedda” alla Pescheria ferisce il cuore del killer spietato.
Pippo Ferone si pente. Ma in realtà aveva già pianificato la sua vendetta di sangue. Il boss è convinto che per poter uccidere a Catania i Laudani abbiano avuto il consenso diretto di Nitto Santapaola e anche degli (ex) alleati Savasta. Sono loro i due obiettivi di “camisedda”. Approfittando dei benefici garantiti dalla collaborazione con la magistratura si arma per colpire il capo di Cosa nostra catanese e Antonio Puglisi. La ferita deve essere profonda. La cicatrice insanabile. Pippo Ferone suona nella casa di Cerza di Nitto Santapaola, all’interno c’è la moglie Carmela Minniti e la figlia Cosima. Stanno preparando la cena, che forse dovevano portare il giorno dopo a Benedetto. Al citofono rispondono “Polizia”. Un alibi per salire al primo piano di quella palazzina gialla e sparare contro la sposa di Nitto. Ma la vendetta non è finita. Pippo Ferone manda dei sicari al cimitero di Catania che uccidono la figlia di Antonino Puglisi, il boss dei “Savasta”. Davanti alla lapide del marito Santa Puglisi muore. Ha 22 anni. E con lei si “dissolve” la storia di un clan che ha macchiato di sangue le strade di Catania. Anche perché qualche anno dopo il padre decide di vuotare il sacco ai magistrati.
Il nome dei Savasta oggi torna sulle colonne dei giornali per la cattura di un latitante. Un intreccio di storie criminali, raccontate con il rosso del sangue. E che porta fino alle pallottole che hanno fatto smettere di battere il cuore della moglie del padrino di Catania, Nitto Santapaola.