Palermo e Catania, la decadenza e i problemi di due città

Mal Comune…

Palermo e Catania, la decadenza di due città

PALERMO – Salvo Pogliese, oltre alla condanna per peculato, deve ingoiare l’amarezza di non potersi schiodare dal penultimo posto della classifica di gradimento dei sindaci pubblicata qualche settimana fa dal Sole 24Ore.

Il prefetto lo ho sospeso per via della condanna per peculato nel processo sulle cosiddette spese pazze all’Ars. Toccherà a qualcun altro guidare Catania nei prossimi diciotto mesi per tentare di recuperare in graduatoria. Le classifiche, d’altra parte, sono spesso frutto degli umori della gente e pertanto suscettibili di cambiamenti.

Le condanne di primo grado, come quella sulle “spese pazze” dell’Ars, si appellano e per Pogliese, come per ogni cittadino, vale il sacrosanto principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. La legge Severino, dalla cui applicazione è scaturita la sospensione del sindaco, invece si applica già dal primo grado di giudizio. I verdetti in sede penale si possono ribaltare. Sono i destini delle città che non mutano. A Catania, come a Palermo che, non è un caso, è guidata dal sindaco meno amato di Italia. Leoluca Orlando chiude la classifica di cui sopra.

Mal Comune mezzo gaudio? Palermo e Catania mantengono il loro fascino, segnato però da una decadenza che le mina nel profondo.

Catania era la Milano del Sud, la città dalla vivace vita notturna e del movimento musicale. Si guadagnò i paragoni con la Settale del grunge. Ma era soprattutto la Catania dell’Etna Valley con le imprese high-tech. Un altro mondo era possibile nell’arretrata Sicilia. Esiste ancora un substrato di intelligenze e innovazione, e una gran voglia di fare, da cui ripartire.

Sotto quale guida politica? Pogliese è stato sindaco da due anni, e non è certo all’esponente del partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, che si possono addossare tute le colpe del declino. L’analisi potrebbe partire dalla stagione di Raffaele Stancanelli, sindaco di centrodestra dal 2008 al 2013, ma è su quella di Enzo Bianco che le attuali vicende giudiziarie impongono una lettura.

La Procura della Corte dei conti ha presentato un conto salatissimo all’ex sindaco e alla sua giunta per il dissesto del Comune. I pm contabili hanno proposto per Bianco l’applicazione della misura interdittiva per dieci anni e una sanzione pecuniaria venti volte la retribuzione mensile lorda. Totale, fra sindaci e assessori: un milione e 200 mila euro. Bianco ha ricordato, a ragione, che il Comune di Catania aveva dichiarato il predissesto nel 2012, sotto la guida di Stancanelli per indebitamenti della precedente amministrazione.

A Bianco, uomo del Pd, parlamentare ed ex ministro dell’Interno del governo di Massimo D’Alema, due anni fa gli elettori hanno preferito Pogliese. Bianco era stato il sindaco della primavera catanese dal 1993 al 2000. Così come Orlando lo è stato nella primavera di Palermo. Nessuno potrà mai togliere ad entrambi il merito di avere tirato fuori le città dalla palude. Ma il passato che non si fa presente è terreno per i nostalgici.

Se l’immagine attuale di Catania è quella di una città senza sindaco e piena di debiti (gli aiuti di Stato hanno evitato la bancarotta), a Palermo nessuno ha dimenticato la Circonvallazione allagata fino a sommergere le macchine, con i poliziotti e i vigili del fuoco impegnati a tirare fuori dall’abitacolo le persone intrappolate.

È vero, sul fronte degli allagamenti le responsabilità vanno divise fra Comune, Regione e Stato. E la la vergogna delle bare accatastate al cimitero dei Rotoli, la sporcizia nelle strade, al buio e piene di buche, l’abusivismo dilagante? Di chi è la colpa di tutto questo?

Di noi cittadini senz’altro, ancora troppo indisciplinati, ma anche di chi amministra, specie per chi è sindaco da sempre (o quasi). È vero, i conti dei Comuni sono sempre in rosso, manca personale (anche se di precari assorbiti o da assorbire sono zeppi gli organici), ma Palermo soffre dell’impossibilità di essere normale.

E la normalità è programmazione. Il piano per dare sepoltura ai defunti scatta quando si è ormai superata la decenza con 500 bare in deposito, si pensa di togliere la manutenzione delle strade a Rap (l’azienda che si occupa dei rifiuti deve fare anche per le strade) dopo che il Comune in due anni ha pagato sette milioni di danni per gli incidenti, i progetti per evitare gli allagamenti, d’intesa con la Regione, rispuntano dopo l’alluvione.

E si riparte con il solito refrain “la colpa è tua; no, è tua”, con gli esposti alla magistratura verso la quale ripone sempre “massima fiducia”. La magistratura si muove in autonomia. Si indaga sui Rotoli, sugli allagamenti, sulle mazzette negli uffici comunali incassate da funzionari presunti corrotti che nessuno mai si è sognato di spostare nonostante le condanne. Quel che conta è ripetere una frase che vale per tutte le stagioni: “Ci costituiremo parte civile”.

Palermo si fa desiderare per ciò che potrebbe essere piuttosto che amare per ciò che è. Non è più la città sventrata dalle bombe degli anni Novanta, anche se la mafia condiziona, purtroppo, ancora la vita di una grossa fetta della città e l’illegalità resta endemica. Si è fatto molto sul fronte della vivibilità, ma continuare a guardasi alle spalle per ricordare com’era brutta Palermo è solo l’inutile tentativo di trovare una consolazione di fronte alle tante, troppe inefficienze di oggi. Un oggi che accomuna le due grandi città della Sicilia in un senso profondo di incertezza sul proprio futuro.

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