Cosa rimane dopo le parole

Cosa rimane dopo le parole

La scomparsa di Franco Battiato: non esserci più ma restare comunque immortali.
IL GIORNO DOPO
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3 min di lettura

CATANIA. Resterà per sempre diabolico da spiegare come testi che non comprendevano le parole “cuore/amore” lo abbiano fatto diventare un idolo di massa. Fa quasi sorridere a pensarci oggi.
Oggi che Franco Battiato se n’è andato.
Ripensare che alle vertigini della classifica venivano consegnati pezzi in cui si parlava di “desideri mistici di di prostitute libiche” o del “senso del possesso che fu prealessandrino”.
Ma la grandezza del cantautore, compositore, regista, sceneggiatore, pittore non sta solo qui.

“Non chiamatemi Maestro”

Lui che mal sopportava l’etichetta sbrigativa e perciò superficiale dell’appellativo “Maestro”.
A Catania, è il 6 novembre del 2012, durante la conferenza stampa nella quale arriva l’investitura ad assessore regionale al Turismo, la calca di fotografi e giornalisti è impressionante. Franco Battiato resta seduto e non si scompone. Lo fa di scatto solo in un’occasione: quando arriva una domanda.
“Maestro Battiato..”
“No, no, no. Maestro no. Non c’è alcun motivo di chiamarmi Maestro”.
“Come la dobbiamo chiamare?”
“Potete chiamarmi Franco. Ma Maestro no”.
Non era un voler recitare una parte e nemmeno una forzatura dal carattere sentimentale. Era molto più probabilmente la voglia di continuare ad approfondire la propria conoscenza senza per forza salire in cattedra.
In fondo, il filo conduttore del suo percorso.

Quel saluto all’amico Sgalambro

Nella chiesa “Crocifisso dei miracoli”, sempre a Catania nel marzo del 2014, l’ultimo saluto all’amico, filosofo e paroliere Manlio Sgalambro.
In fondo al sagrato Franco Battiato resta nascosto, seduto sulla panca, tra le tante persone accorse alle esequie. La compostezza e la discrezione dell’uomo Battiato diventano una liturgia laica nell’abbraccio definitivo al compagno di scrittura col quale ha condiviso pezzi che già dal primo ascolto hanno avuto il sapore sfuggente dell’immortalità.
All’uscita c’è chi prova a intercettarlo:
“Come facevate a sapere che c’ero? Devo andare, so che capirete. Grazie”.

Da Riposto a Milano

E’ a metà degli anni sessanta che, assieme alla madre, si trasferisce da Riposto a Milano. Giorgio Gaber vede in lui una genialità da coltivare. Arriveranno, così, i primissimi singoli: La torre e Le reazioni.
Nel 1982 si fa la Storia. Esce “La voce del padrone” e nulla sarà più come prima. Il disco diventa la colonna sonora di una stagione ancora oggi irripetibile dove il pop calamita a se immagini storiche ed esoteriche; rivolge lo sguardo all’Oriente fino ad allora misterioso e indecifrabile; spingendosi fino alla critica ironica ma diretta alla musica di quei giorni. 
Sono i testi che sorreggono le note, e viceversa.
Un impatto devastante che non è solo canzone.  

In fondo, Franco Battiato, non ha mai nascosto di sentirsi più un compositore che un cantante. Ma quelle canzoni qualcuno doveva pur intonarle. Testi che non avrebbero mai ammesso alcuna delega perchè, quelle canzoni, le cantava anche bene con quella voce così particolare. Negli ultimi anni, nelle ultime apparizioni, quella voce ridotta nel fiato e nella forza sentivi che proveniva ugualmente da una parte profonda. 
Sulla voce ha sempre lavorato: non sull’esibizione. Sul palco la storia era diversa, quasi una performance minimalista fatta di istinto, gesti e pause.

Quello che resta

A ventiquattr’ore dalla scomparsa di Battiato ci rimane in eredità la sua musica con la quale ha sovvertito le epoche che ha attraversato e affrontato. Ed è alla sua musica che vale la pena aggrapparsi per ricordarlo ben oltre la facile trappola della retorica e della banalità.
Composizioni che ancora oggi squarciano il tempo.
Prendete “Cuccurucucù”.
“Una canzone che è davvero un mistero. Una canzone facilissima, complicata, imprendibile. Come era imprendibile lui, che prendeva le distanze da tutti sventolando bandiera bianca con notevole ironia”.

Eccola, allora, La Cura: non esserci più ma restare comunque immortali.


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