La voce del celebrante è un’eco oltre le porte della chiesa del cimitero di Santa Maria dei Rotoli, a Palermo, tra il mare e l’orrore. Una voce maschile che recita cose antiche e sempre tragicamente rinnovabili: “Accogli la nostra sorella…”. Ma chissà dove riposerà colei che saluta ufficialmente il mondo in un giorno di maggio. Se potrà ricevere degna sepoltura o se sarà costretta ad aggiungersi alle mille e qualcosa anime che vivono la propria morte, stipate ovunque, come scatoloni sugli scaffali di un market malmesso.
Il colpo d’occhio è talmente impressionante che ormai non ci si fa più caso. Se c’è una specialità in cui Palermo è capitale di qualcosa consiste nel lasciarsi scivolare addosso ogni bruttura con l’aria di chi deve sopravvivere e non può soffermarsi sulle ferite. Tuttavia, questa ferita è una piaga gigantesca, un indice puntato, uno sfregio oltre l’immaginazione. E forse proprio la sua enormità rende meno inerme il silenzio della rassegnazione. Si tratta di legittima difesa contro il superamento del limite. Dovessimo parlare davvero del cimitero dei Rotoli di Palermo, non resterebbe tempo per altro. Un’intera città sarebbe costretta a convergere nel buco nero che la inghiotte e dovrebbe ammettere di non essere più una città.
Sotto i tendoni bianchi l’odore acre assume sfumature familiari. L’abitudine olfattiva rende meno drammatico l’impatto. Ci sono persone – sì, persone, non merce di scarto – che attendono una sistemazione da due anni. Bare per terra. Bare accatastate. Foto posticce che si staccano e vengono calpestate dai parenti in cerca del proprio caro estinto. Facce, in forma di effigie fotografica, schiacciate a più riprese dalle suole di chi, nella sua desolazione, deve inventarsi il culto della pietà in un contesto inumano.
I gabbiani gridano e roteano nel cielo. Qualcuno scende in picchiata, spaventando i convenuti. La tomba della dottoressa Francesca Morvillo viene salutata con un mezzo inchino da tutti. All’ingresso, certe stanze quasi sputano feretri. Più di mille palermitani giacciono in attesa. “Chi vive a Palermo è palermitano”, ha detto il sindaco Orlando. Dunque, si suppone, anche chi muore a Palermo. Allora come giustificare un simile strappo dei diritti in faccia all’umanità?
Il dramma dei Rotoli compare e scompare di continuo. Viene tirato su nell’occasione di una polemica politica, altrimenti si inabissa. Ma non è che sia granché presente nei primi assaggi della campagna elettorale, se non per una sortita di Franco Miceli, candidato del centrosinistra, contro la sua stessa area culturale e politica. Dopo quel sussulto non se n’è parlato più. Forse perché il sindaco che verrà sa già che il problema – l’eredità lasciata dall’amministrazione di Leoluca Orando – rimarrà spinoso e che, nonostante fondi, progetti e buona volontà, non sarà semplice risolverlo. Meglio evitare promesse che potrebbero non essere mantenute. Ma questa è soltanto la cronaca di una mattina di maggio al cimitero dei Rotoli, dove non è cambiato niente, nella capitale mondiale dell’indifferenza. Qui, dove Palermo è morta.