Tutte le parole di questa storia portano al cortocircuito non aggirabile. Una madre che uccide la figlia. Mascalucia, terra di cenere lavica, di fiori e di odori fortissimi alle pendici dell’Etna, con quei profumi mescolati di gelsomino e vulcano, sarà, suo malgrado, ferita in eterno. Rimarrà, nella toponomastica dell’indicibile, la tragedia di Elena Del Pozzo, ammazzata, a neanche cinque anni, secondo gli elementi disponibili, dalla mamma, la ventitreenne Martina Patti. Come il delitto di Cogne: Samuele ucciso dalla mamma, Annamaria Franzoni. Come il delitto di Santacroce Camerina: Loris ucciso dalla mamma, Veronica Panarello. Come in tutti gli abissi della cronaca. Lì dove c’è una madre che toglie la vita a un figlio, dopo avergliela data.
“Anche io ho pensato alla vicenda di Cogne, a Samuele e a Loris, sono accadimenti atroci che ci scuotono nel profondo. Siamo davanti all’impensabile che diventa reale. Le madri che assassinano i figli sono il massimo della contraddizione, nel nostro sentimento collettivo che vede, giustamente, nella maternità, l’amore immenso di chi genera la vita”. Così, Daniele La Barbera, psichiatra palermitano, professore universitario, cerca di aprire uno spiraglio nell’oscurità. Non per spiegare l’inspiegabile, ma per orientare.
“Non ho una conoscenza approfondita di questa storia tremenda, intervengo per quello che ho visto e letto – dice il professore -. Si è parlato di sindrome di Medea, credo, a proposito: cioè dell’azione estrema di una madre che va contro la sua stessa prole per vendicarsi del padre. Può succedere, purtroppo, in giovani donne con rapporti affettivi degradati, segnati da un altissimo livello di conflittualità. Una esacerbazione che aumenta quando subentra un nuovo partner dell’ex compagno. Si tratta di persone che, spesso, possono avere alle spalle grandi sofferenze”.
Su quello che potrebbe essere successo, il professore, con le normali cautele di uno sguardo dall’esterno, un’idea, però, ce l’ha. “Non mi pare – dice – che siamo alle prese con una condizione dissociativa acuta, comunemente detta raptus. In quella specifica situazione, il figlio è visto come qualcosa di esterno, che turba, che infastidisce e che viene soppresso. Qui, forse, la piccola Elena è stata la vittima innocente, il capro espiatorio che viene sacrificato, come se dovesse pagare per il dolore e per tutti. Siamo davvero dentro un abisso insondabile, qualcosa che facciamo fatica a definire”.
E c’è da raccontare quell’abbraccio, di cui abbiamo scritto e di cui si è molto discusso, tra la madre e la figlia, all’asilo. “Non mi sembra una messinscena – spiega Daniele La Barbera -. Mi ha impressionato, come se fosse un gesto di pietà, nonostante tutto. Un segnale della violenta e irragionevole ambivalenza che può albergare nella mente di una madre che si appresta a compiere un gesto micidiale”. Pietà è una parola che potrebbe aiutarci a uscire dal labirinto dello sgomento. Ma sarà impossibile dimenticare il sorriso di Elena che rimarrà per sempre bambino. (Roberto Puglisi)