CATANIA. Secondo quanto si legge nella Relazione della Giunta Parlamentare d’Inchiesta, istituita con legge del 3 luglio 1875, la mafia è “lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male, è una solidarietà intuitiva, brutale, interessata che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre l’esistenza e gli agi non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dalla intimidazione”.
La mafia, dunque, è vecchia di un paio di secoli, ma soltanto dal 1982 è vietata da un articolo del codice penale, il 416 bis, che punisce coloro che si avvalgono della forza di intimidazione e dell’assoggettamento omertoso che deriva dall’appartenenza al sodalizio per commettere delitti, per acquisire il controllo di attività economiche, appalti e servizi pubblici o per influire sul libero esercizio del voto. Prima di allora, per dirla con Falcone, combattere la mafia era un atto di testimonianza eroica vano e fine a sé stesso: un po’ come le cariche della Cavalleria polacca, a sciabola sguainata nella Seconda guerra mondiale contro i Panzer tedeschi.
Usando il grimaldello dell’articolo 416 bis, Magistratura e Forze di Polizia sono così riuscite, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, a scardinare lo scrigno dell’impunità di Cosa nostra. Ma dal 1982, anno della sua introduzione, ne sono trascorsi altri quaranta, durante i quali il 416 bis (applicabile pure a camorra, ‘ndrangheta e altre associazioni comunque localmente denominate, anche straniere) ha subito solo modifiche superficiali (prevalentemente, inasprimenti della pena). Nel frattempo, le mafie sono profondamente cambiate, pur mantenendo intrecci stabili e profondi col passato. Nuovi illeciti traffici d’ogni genere riempiono ogni giorno i portafogli dei criminali. Riciclando riciclando, costoro hanno creato una economia parallela che risucchia nel suo vortice commerci, imprese e forze economiche sane, che si infiltra negli snodi dell’economia legale, la parassitizza e la svuota della forza vitale.
La tradizionale capacità di mimetizzazione dei mafiosi (passare inosservati per curare meglio i propri affari) si è affinata: mazzette invece di piombo, e il doppio petto al posto della coppola e della lupara. Ma nel codice genetico della mafia vi è sempre stata la camaleontica abilità di adattarsi al contesto in cui deve operare, sfruttando al meglio le opportunità che offre, ad esempio, l’evoluzione quotidiana del settore tecnologico o le possibilità offerte dalle robuste iniezioni di denaro seguite all’emergenza pandemica. Attraverso un accorto arruolamento (ben remunerato) di soggetti culturalmente attrezzati, con importanti relazioni, il business mafioso acquisisce un’apparenza rispettabile, accede ai circoli della politica, dell’imprenditoria e delle professioni, dove intreccia proficue alleanze.
La zona grigia tra militanza, contiguità e connivenza mafiosa è così in continua espansione. Tutto ciò sfuma la linea di demarcazione fra legale e illegale e i confini della nozione stessa di mafia. Dunque, l’evoluzione delle mafie pone il problema se ad essa debba corrispondere un’eventuale evoluzione dei mezzi di contrasto. Occorre allora chiedersi se, per concretare il metodo mafioso, con assoggettamento dei politici e degli imprenditori alla volontà e alle regole del sodalizio dominante sul territorio e conseguente lesione delle libertà democratiche, d’impresa e della concorrenza, sia necessaria la consumazione di alcuna violenza fisica o minaccia esplicita, ovvero se, al contrario, non basti allo scopo quella forma di intimidazione — per certi aspetti ancora più temibile — che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, quando lasci trapelare una potenza criminale cui si ritenga vano resistere. Occorre chiedersi se la normativa vigente, pur adatta a colpire la «vecchia mafia», sia idonea a contrastare sempre ed efficacemente anche la «nuova». Quella che corrompe sistematicamente funzionari pubblici o si nasconde dietro consigli di amministrazione, holding, società di varia natura (oltre che dietro il paravento formale della politica o dell’amministrazione pubblica), facendosi forte di un precedente avviamento criminale, consolidatosi nel tempo, che ne costituisce l’effettivo capitale sociale.
Occorre chiedersi se non sia necessaria una revisione normativa del 416 bis che ne adegui la struttura alle novità operative delle organizzazioni criminali, se non si vuole tornare a combattere i carri armati con le scimitarre.