Lo chiamiamo Pronto soccorso, ma, in effetti, somiglia una prigione per innocenti. Una esperienza di cattività. Prigionieri i pazienti che sono lì perché stanno male e devono attendere ore. Prigionieri medici, infermieri e personale che , nell’ingolfamento, danno aiuto come possono. Tutti compressi nella stessa bolla di disagio. E, spesso, ci scappa la violenza che non è mai giustificabile in nessun caso e non ha alibi.
Al pronto soccorso dell’ospedale ‘Cervello’ di Palermo, per esempio, è successo di nuovo. La polizia ha denunciato un uomo accusato di violenza, resistenza a pubblico ufficiale e interruzione di pubblico servizio per aver aggredito due medici. Ma non si tratta di novità, né di casi isolati. Nelle celle impazzite dei nostri ospedali, episodi del genere – giova ripeterlo: ingiustificabili – sono il frutto di una esasperazione corrente. E le voci dalla prigionia confermano il panorama desolante che, in troppe occasioni, abbiamo già raccontato.
Attese di sette giorni
“La situazione è critica – dice una dottoressa di quel reparto -. Sempre meno medici vogliono fare pronto soccorso, perché i ritmi sono stressanti, siamo pochi e sottoposti a continue violenze. Ci sono pazienti che aspettano anche sette giorni prima di essere assegnati a un reparto. Noi cerchiamo, con sacrificio, di mettere pezze, ma non è semplice”.
Una situazione non nuova, però, rinnovabile. Lo spiega con chiarezza la dottoressa Tiziana Maniscalchi (nella foto), primario del pronto soccorso di Villa Sofia e ad interim dell’urgenza del ‘Cervello’. Un doppio incarico molto impegnativo. Il Covid sembra in ritirata, ma l’emergenza sanitaria è sempre attuale.
Mancano i posti letto
“Sono qui dalle sette e mezza del mattino – dice la dottoressa Maniscalchi, rispondendo a una chiamata nel pomeriggio -. Ci sono giorni più complicati di altri e oggi è lunedì. Villa Sofia-Cervello raccoglie mezza Palermo, questo è un elemento. La dotazione di personale sanitario è carente. Al pronto soccorso di Villa Sofia abbiamo circa dodici medici su una pianta organica di trenta, siamo in sofferenza. Ci sono colleghi che danno le dimissioni, perché, evidentemente, non ce la fanno più”.
“C’è un fiume di persone da assistere – continua la dottoressa -. Posso dire che l’emergenza Covid, al momento, non c’è, perché vediamo davvero pochi casi gravi, resta l’emergenza sanitaria complessiva che, forse, è un po’ sottovalutata. Ci rendiamo conto che le attese sono molto lunghe, perché mancano i posti letto, per esempio. Ma pure noi soffriamo se un paziente deve aspettare. Non possiamo essere certo contenti…”.
I saluti del primario
C’è chi si dimette e c’è chi arriva alla fine del proprio percorso professionale. Il dottore Aurelio Puleo, predecessore della dottoressa Maniscalchi, si congeda con una lettera, va in pensione. Ecco cosa scrive su Facebook: “Un saluto speciale a tutto il personale e ai medici del pronto soccorso (grandi professionisti, ‘eroi’ veri e dimenticati) e un augurio ai colleghi che subentrano al mio posto a cui sono consapevole di lasciare situazioni estremamente complesse e difficili da gestire in un contesto regionale e nazionale ancora più problematico, se non addirittura critico”.
Il dottore Puleo merita, da persona perbene e professionista impegnato, gli affettuosi saluti che tanti gli stanno porgendo. Ma nel suo commiato si rileva una dose oggettiva di amarezza che tratteggia la catastrofe in atto. Sarà un grande giorno quello in cui medici potranno essere soltanto medici e non per forza eroi. (Roberto Puglisi)