PALERMO – “Queste cose le fanno gli animali”, hanno detto qualche giorno fa le mamme dei giovani imputati condannati per lo stupro del Foro Italico di Palermo.
Persino dall’ostinata difesa di un figlio da parte di chi è donna prima di essere madre può nascere una riflessione nella giornata nazionale contro la violenza sulle donne.
La speranza è che la terribile storia di Palermo lasci qualcosa nell’intera comunità. Qualcosa che resista ai resoconti giornalistici. La sofferenza è di chi la violenza l’ha subita, ma c’è un fardello culturale e sociale collettivo. Le macerie di umanità dovremmo raccoglierle tutti.
Persiste purtroppo uno sbilanciamento, frutto di una visione sessista. L’uomo è colui che commette uno sbaglio o un reato, la donna è colei che nella stragrande maggioranza dei casi lo provoca. C’è ancora una forte resistenza a inquadrarla come vittima.
La vicenda si è ripetuta anche nel caso del Foro Italico. Ci sono due aspetti, uno giuridico e l’altro, appunto, culturale.
Non si tratta in questa sede di affrontare la legittima questione difensiva, dibattuta dai legali, se la vittima avesse o meno prestato il consenso al rapporto di gruppo.
Lontano dalle aule, in un malsano chiacchiericcio, social e non, si sono usati gli atteggiamenti della ragazza, passati e presenti, come arma contro di lei. Come se i suoi comportamenti disinibiti fossero la prova del consenso prestato la sera di luglio nel cantiere abbandonato al Foro Italico.
Come se la sua personalità e la sua libertà sessuale giustificassero tutto.
Non importava sapere se al Foro Italico la ragazza avesse prestato o meno il consenso per un rapporto sessuale con più uomini, la ‘prova’ che lo avesse voluto era in quel chiacchiericcio sulle sue precedenti esperienze.
La donna diventa un oggetto utile a soddisfare i desideri sessuali altrui, si completa il percorso di deumanizzazione della persona che si ha di fronte.
Se così non fosse gli investigatori non avrebbero registrato frasi che lasciano sgomenti indipendentemente dal tema giuridico del consenso da cui è scaturita la condanna degli imputati.
Sette giovani – il più piccolo aveva 17 anni, il grande 23 – ammettevano di avere fatto qualcosa di cui “schifarsi, ma la carne è carne”. Che la ragazza si era “sentita pure male, piegata a terra, ha chiamato l’ambulanza l’abbiamo lasciata lì”. Lì, come “una cana”.
Di fronte a tutto questo, però, dicevano di essersi “divertiti”. Il divertimento di un gruppo di ragazzi palermitani, figli di questa città, meritevole di essere addirittura filmato. Sono macerie di umanità, culturali e sociali, che riguardano tutti.