Mi resta impresso nella pupilla un ultimo, struggente fotogramma: c’è un primo piano di Brichetto, il portiere di riserva alla fine rimasto solo in panchina, che guarda fisso davanti a sé. La telecamera indugia sul suo volto e sul suo sguardo vitreo. Improvvisamente una lacrima, lucente e frettolosa, gli bagna una guancia e lui la lascia fare. Poi, con un gesto pudico, quasi automatico, la nasconde con una mano, ma quella gli sguscia di sotto e si ferma sul mento.
Indugio sul dettaglio per esprimere, magari con rabbia, un mio pensiero che mi strugge dal triplice fischio di Romeo, l’arbitro di questa ultima partita della speranza rosanero: dopo aver sostenuto la squadra con commovente dedizione, la curva alla fine è esplosa nella sua furia incontenibile e i cori contro gli undici rosanero ancora in campo sono stati feroci, sferzanti come scudisciate, frecce avvelenate che li colpivano non solo come giocatori ma anche, se non soprattutto, come uomini: “In-de-gni!… In-de-gni!”. E in rapida successione: “Andate a lavorare!”.
Ebbene, il mio pensiero è questo: i giocatori per me non sono indegni, perché danno quel che possono, ma proprio qui sta il problema, il vero problema, diventato un equivoco grosso come una casa. E cioè che non è questione di cuore, di grinta, di spirito di sacrificio, di scarso onor di maglia. No, non è questo il punto. Il fatto è che a questi giocatori dar tutto quello che possono non basta per evitare la retrocessione, perché hanno dei limiti tecnici e, se volete, anche caratteriali, che non li fa andare oltre. E così, pur passando in vantaggio, dopo un calcio d’angolo sapientemente calciato da Miccoli (ahimè, uno dei rari suoi rari segni di presenza in campo) Terlizzi ha ribattuto verso la sua porta colpendo il palo, la palla è rimbalzata sui piedi di Anselmo che l’ha cacciata in gol: 1-0 per il Palermo a fine primo tempo e strada spianata verso la vittoria, verso la rincorsa al quart’ultimo posto.
Insomma, in quel momento sembrava che finalmente la ruota stesse cominciando a girare dalla nostra parte: segnare sull’unica palla “buona” capitata in 45 minuti e con il giocatore meno brillante della compagnia (uso un eufemismo perché non mi piace girare il coltello nella piaga) poteva voler dire una sola cosa e cioè che solo noi a quel punto potevamo buttar via un’occasione insperata fino ad allora e persino immeritata. Ma, mi dicevo, quante volte quest’anno la fortuna ci ha voltato le spalle e ripensavo ai gol subiti negli ultimi minuti a Bergamo, a Pescara, a Parma, a Udine, a Cagliari: “Bene così – mi son detto – finalmente un po’ di fortuna anche per noi!”: Bastava gestire la situazione favorevole che si era venuta a creare, anche perché davanti non avevamo mica il Real Madrid ma un’onesta squadra composta da buoni giocatori e niente di più. Tutto a posto, quindi, al 45’, strada in discesa e uscita dal tunnel a portata di mano.
Invece, subito ad apertura di ripresa – anche questa una cosa già vista quest’anno tante volte – abbiamo beccato il gol più stupido e autolesionistico della terra: cross spiovente di Rosina e pasticciaccio brutto, in combutta tra Sorrentino e Munoz: il portiere che frena in uscita, come colpito da improvvisa paralisi e Munoz che colpisce di testa in modo scriteriato, consegnando in pratica la palla a Emeghara, che non se l’aspettava nemmeno tanto regalo, visto che intreveniva quasi di striscio, ma quanto bastava per metterla dentro: 1-1 e sgomento che invade tutto lo stadio, da una curva all’altra.
Un lungo silenzio di gelo, che sa di stupore più che di rabbia, poi riparte di gran lena la passione della curva, i suoi canti, i suoi cori e il suo fiato caldo che arriva fin sul terreno di gioco per scuotere i rosa, visibilmente colpiti dall’incredibile gol del pareggio del Siena. Che, da squadra vera, che capta e si esalta sotto la spinta vigorosa del suo allenatore – Iachini, un guerriero che non si arrende mai, e qui lo sappiamo bene, perché ha vestito la nostra maglia e con un suo gol al Milan, qualche anno fa, ci condusse quasi in finale di Coppa Italia – ci ha dato dentro con rinnovato slancio e con un contropiede saettante del duo Emeghara-Rosina, ha decretato la fine di ogni residua stilla di speranza: calcio di rigore e 2-1 per il Siena. Ah, dimenticavo: il contropiede veniva innescato dal solito dribbling inutile a metà campo di Fabbrini, che aveva appena sostituito l’impalpabile Dossena. Quindi, non solo abilità e destrezza dei due bianconeri ma autentico, dissennato harakiri rosanero, nel momento cruciale della partita.
Poi Gasperini provava l’ultima carta: Ilicic per Miccoli, che usciva senza fiatare, si sfilava la fascia dal braccio e la consegnava allo sloveno. Che se la teneva tra le mani, come non sapesse che farsene, poi la faceva sparire chissà dove, chissà come. E per l’ennesima volta entrava in partita ad intermittenza (ora un tocco di fino, ora un dribbling verso l’esterno: insomma, tutta roba superflua o quasi) e sempre con quella sua aria che sa di sufficienza, ma che è semplicemente la sua (scarsa) capacità di incidere sulle sorti di una gara, specie se i giochi sembrano già fatti. Eppure da due suoi assist, nascono le uniche palle buone per il pareggio (almeno quello, che avrebbe quanto meno riallungato l’agonia rosanero, con la solita, stantia, insopportabile litania: mancano ancora dieci partite e finché i numeri non ci condannano…) , palle che si infrangono entrambe sula traversa della porta difesa da Pegolo, ormai battuto: la prima di Munoz di testa e l’altra di interno collo destro di Nelson. Quando è scritto è scritto o, come si dice dalle nostre parti: “’U cani muzzica ‘u chiù sfardatu!”.
Per dire, anzi ripetere per l’ennesima volta che, nell’innegabile modestia (anche questo un eufemismo) di questo Palermo qualche danno l’ha fatto anche la dea bendata. E, prima che qualcuno pensi, che io, tifoso intemerato quale sono, siccome non riesco a rassegnarmi, stia ancora cercando alibi ed appigli per un sogno ormai svanito da un pezzo (azzardo una data: agosto 2012), OGGI, 10 MARZO – lo scrivo a caratteri cubitali, così possono leggerlo tutti, pure i ciechi – IL PALERMO (il mio amato Palermo, l’unica squadra della mia vita, mai tradita per niente e per nessuno e seguita perfino quando non c’era più – settembre 1986, radiazione per debiti – cercata dovunque, in città e in provincia, purché qualcuno portasse i suoi colori) E’ IN SERIE B. Letto, scritto e confermato. Con la morte nel cuore, ma così è.