PALERMO – La cassaforte dei mafiosi l’avevano definita, a ragione, i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza sul tesoro di don Vito Ciancimino. Ora quella cassaforte, la Gasdotti azienda siciliana, si svuota di un altra parte di quel tesoro. Dopo i soldi dell’ex sindaco e di Gianni Lapis, la Procura di Palermo ottiene il sequestro dell’impero degli eredi di Ezio Brancato. Un patrimonio costituito da società, attività commerciali, immobili di lusso e disponibilità finanziarie del valore complessivo di 48 milioni di euro. Il provvedimento è stato emesso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo su proposta del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e del sostituto Dario Scaletta.
l sequestro – che riguarda gli eredi di Ezio Brancato: la moglie Maria D’Anna e le figlie Monia e Antonella – è il risultato di un’indagine del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Palermo, che ha fatto emergere le infiltrazioni di Cosa Nostra e dei suoi leader storici – fra cui Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro – negli affari delle società appartenenti al gruppo imprenditoriale che ha curato, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, la metanizzazione di diverse aree del territorio siciliano.
E’ stato il grande affare del gas. Nel 1981 nasceva la Gasdotti Azienda Siciliana fondata da due gruppi imprenditoriali. Uno faceva capo al tributarista Gianni Lapis. L’altro ad Ezio Brancato. Grazie all’appoggio di Cosa nostra l’azienda ottenne il via libera per realizzare la rete e la concesisone per distribuire il metano in settantaquattro comuni di Sicilia e Abruzzo. Nel 2004, prima di essere venduta per 115 milioni di euro agli spagnoli della Gas Natural, la società era diventata un colosso del settore.
Lapis, di recentev tornato in carcere per una presunta ma colossale storia di riciclaggio, era la mente economica di don Vito Ciancimino. L’accusa di intestazione fittizia di beni venne dichiarata prescritta nel 2011, ma la Casaszione lo condannò a due anni e otto mesi per tentata estorsione. Dalle indagini era venuto a galla il passaggio di circa 5 milioni di euro transitati dal conto di Ezio Brancato a quello della figlia di Lapis. E da qui in quello svizzero denominato “Mignon” nella disponibilità di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito.
Dentro l’affare del gas vi è finito di tutto. Soldi a palate, intrecci societari, e persino pesanti accuse contro il pool di magistrati che in passato ha indagato sul tesoro di Ciancimino. Il figlio dell’ex sindaco, l’avvocato Giovanna Livreri, un tempo avvocato dei Brancato, e Lapis sostennero che i pm palermitani avessero pilotato le indagini per garantire l’impunità ai parenti di un magistrato. L’inchiesta a Catania fu archiviata, sgombrando il campo da ogni sospetto.
Ciancimino jr in questi anni trascorsi fra processi e interrogatori ha sostenuto che parte del patrimonio della società del Gas, venduta agli spagnoli, era riconducibile a Ezio Brancato, funzionario regionale morto nel 2000. Un nome pesante, visto che si tratta dell’ex consuocero dell’attuale procuratore nazionale antimafia Giusto Sciacchitano. Ciancimino è andato oltre: alcuni magistrati palermitani, a suo dire, avrebbero sviato le indagini per favorire le eredi di Brancato, la figlia Monia e la moglie Maria D’Anna. Come dicevamo, l’indagine è stata archiviata.
Oggi per gli eredi Brancato è scattato il sequestro. Ezio Brancato, secondo l’accusa, era davvero in affari sporchi con don Vito Ciancmino. Da qui l’indagine che si è estesa alle operazioni di cessione dell’intero pacchetto azionario della Gas e del patrimonio delle società. Le vendita agli spagnoli avrebbe permesso agli eredi dell’imprenditore di ”ripulire” gli ingenti proventi acquisiti grazie all’appoggio di Cosa Nostra nella costituzione di nuove società, nell’avvio di attività commerciali e nell’acquisto di beni immobili a Palermo e nella provincia di Sassari, tra appartamenti, ville e case di lusso.
L’inchiesta si è avvalsa di numerosi riscontri legati alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Giovanni Brusca, Vincenzo Ferro, Antonino Giuffrè; al contenuto di alcuni pizzini sequestrati a boss mafiosi; all’esame di decine di contratti di appalto e sub appalto per l’esecuzione di lavori connessi alle opere di metanizzazione. Gli investigatori hanno ricostruito la storia delle diverse società del gruppo in parallelo a quella della ricchezza accumulata nel tempo dalla famiglia del fondatore, subentrata nelle gestione dopo il suo decesso avvenuto nel 2000.