Hanno contribuito positivamente a restituire il centro storico alla città, i loro figli – nati a Palermo – usano il congiuntivo con più destrezza dei loro compagnetti di scuola palermitani e li superano nei voti anche nelle lingue, dialetto incluso, ma per molti a Palermo sono ancora tutti indistintamente “i turchi”. In realtà con la Turchia non hanno nulla a che fare. Provengono dall’Africa sub-sahariana, dal Maghreb, dall’Eritrea e l’Etiopia, da paesi asiatici come il Pakistan, il Bangladesh e lo Sri Lanka. Sono le comunità di immigrati che a partire dagli anni ottanta si sono insediate nei nostri quartieri popolari resi famosi dai mercati tradizionali: Ballarò, la Vucciria, il Capo.
Lungo l’asse del Cassaro, al Borgo Vecchio e intorno a via Sammartino vive invece la comunità Tamil più numerosa in Italia, che conta circa tremila immigrati. E a Palermo c’è anche una Chinatown, in via Lincoln, costellata di lanterne rosse soprattutto nei pressi della stazione ferroviaria, nuovo luogo di aggregazione della comunità orientale, l’ultima arrivata in città in ordine di tempo. A Palermo, soprattutto nel centro storico, i cosiddetti “turchi” convivono più o meno pacificamente con gli “indigeni”. La piazza del mercato, luogo d’incontro e moderna agorà, è multiculturale. Basta fare un giro per le strade per vedere che accanto ai banchi caratteristici con le primizie siciliane sono sorti molti African market, gestiti dai ghanesi, e tanti negozietti indiani.
Più che integrazione, c’è una pacifica tolleranza: ogni gruppo tende a fare comunità a sé. O meglio: ognuno si fa i fatti suoi. La sera, dopo la chiusura del mercato, la piazza diventa territorio degli africani, che siedono all’aperto per bere una birra, spesso insieme agli studenti fuori sede, ai turisti stregati dall’atmosfera e agli “alieni” che di questo incantesimo sono rimasti vittime per folgorazione di passaggio. Ai “turchi” si deve un miracolo: approdati in un centro storico degradato, hanno contribuito con la loro presenza, le attività commerciali, i canti e le danze, a restituirlo alla città. Da luogo ritenuto pericoloso a spazio vissuto e gradito, e questo grazie alla loro vita che si svolge in piazza e alle loro grigliate che diffondono fumi e profumi dopo il tramonto. Le loro “mangiate” sono condite con birra fredda e percussioni di tamburi.
Questo processo si è innescato a partire dalla metà degli anni novanta e ha creato un circolo virtuoso, favorendo l’apertura di locali notturni per i giovani, tavernette e ristorantini. A Ballarò, come nella limitrofa Vucciria, sono diminuiti drasticamente gli scippi, e i quartieri popolari – un tempo disertati – oggi sono frequentati da tutti, palermitani e stranieri, anche di notte e senza timore.
A uno sguardo superficiale, le famiglie degli “indigeni” di Ballaro e i “turchi” hanno molte cose in comune: sono nuclei numerosi che vivono stipati in una stessa casa, spesso condividendo lo spazio di un angusto bilocale. Alcune volte non sono i “turchi” a passarsela peggio: c’è chi, tra gli indigeni, è più disagiato di loro. Quello che differenzia l’indigeno dal “turco” è facile da spiegare. L’indigeno è un disperato che tende a scaricare sempre su qualcun altro la responsabilità delle proprie azioni: “E’ colpa di Tizio, è colpa di Caio, i politici sono tutti ladri” e lamentele varie ed eventuali. Il ballarò-panormita è pigro e spende il proprio tempo a lagnarsi, aspettando che qualcuno – persona fisica o entità celeste – si materializzi miracolosamente e lo salvi dalla sua condizione.
Non che il “turco” sia meno disperato. Lo è tanto quanto. Magari ha dovuto attraversare il deserto a piedi o sfidare il mare in gommone. La disperazione e l’istinto di sopravvivenza, per il “turco”, sono i migliori alleati. Questi stranieri trasformano sempre il veleno in medicina e, prodigiosamente, risorgono. Le donne, quelle “turche”, sono belle da svenire. Floride o slanciate come gazzelle, sortiscono un unico effetto sul maschio siculo: il risveglio degli ormoni.
Va detto che molto spesso i “turchi” di Ballarò, come tanti altri immigrati che vivono a Palermo, al loro paese erano medici, ingegneri, abili costruttori e così via. C’è chi addirittura ha studiato letteratura, filosofia, lingue. In questo caso la sfiga è democratica e non conosce confini: morti di fame sono i “turchi” al loro paese, morti di fame sono i palermitani nella nostra città.