“Torneremo all’agnello – perché è dall’Agnello che veniamo. Perché è il suo pianto che in questi giorni, ancora (non) abbiamo ascoltato. Viviamo tra milioni di creature che sono altro da noi – ed essere altro non è essere meno di noi: che ignoriamo, che scuoiamo, che torturiamo, che strangoliamo, che laceriamo, che tagliamo, che imprigioniamo, che picchiamo, che insultiamo”.
Scrive così Stefano Di Michele, un grande scrittore italiano, su un grande giornale italiano. Scrive così sul ‘Foglio’ che gli anti-berlusconiani non leggono, perché sono molti intelligenti e intelligentemente smarriscono fede e poesia, se abitano in terre straniere.
Pensavo a quegli agnellini, mentre facevamo in casa le pecorelle di Pasqua, circondati da un gattino curioso che si dava arie da lupacchiotto. Le pecorelle in casa sono difficili. Ci vuole la pazienza, un tavolo lungo, l’impasto di martorana, l’essenza alle mandorle. Ci vuole saper tratteggiare gli occhi con un colore nero e finissimo. Ci riesci solo se a scuola eri un campione nel disegno artistico. Io no. Io dovevo scrivere sotto quello che disegnavo il nome di ciò che avevo disegnato. Almeno si capiva. La mia pecorella è venuta fuori storta, col muso troppo rosso e due occhi neri alla Stallone che ha appena incontrato Ivan Drago. Più che una pecorella di Pasqua sembrava un prigioniero di Guantanamo. Ma tant’è: ognuno realizza bellezza con le mani, per quanto sia in grado di vederla nelle cose. Chi la scorge solo con le parole, generalmente si perde nell’impasto.
Eppure c’era un che di risarcimento e di consolazione nell’impastare la mia pecorella con gli occhi pesti e neri. C’era una santità involontaria. Era tutta sua. Non apparteneva a me. Era la grazia che premia la volontà. Bastano gesti dolci per difenderci dall’impero dei lupi che sta allargando i suoi confini. E quegli ululati che sentiamo ormai qui riflettono la nostra viltà che nemmeno riesce a organizzare l’ultima resistenza. Fare una pecorella di martorana vuol dire un po’ resistere. Come accarezzare il viso di qualcuno. O sorridere a uno sconosciuto. O abbracciare al cimitero l’uomo ignoto che piange accanto a una lapide e tu non immagini perché. Fare una pecorella in casa, non comprarla al bar già brutta e fatta, vuol dire conservare la fede nelle piccole cose, nelle piccole volontà, nel grande coraggio delle piccole persone, dedicare tempo a chi ami, a colui o a colei a cui stai pensando per il dono. Nessuno fa una pecorella di martorana a casa per mangiarsela. Il gusto sarebbe un premio inutile per una fatica talmente operosa.
Mentre impastavo, mentre spargevo il colore sul volto della mia pecora e il colore si spargeva, scendendo e colando ben oltre la mia consapevolezza pittorica, pensavo che sarebbe stupido combattere i lupi a morsi. Tutto appartiene ai lupi. La volgarità è il loro credo. La voracità con cui divorano è il loro modus operandi. La sfiducia con cui ti convincono che è inutile sperare è il loro miglior alleato. Tutto è dei lupi. Tutto azzanna. Dicono che sia colpa della crisi. Che la violenza nasca dalla fame. Che la linea del rispetto sempre più sottile fra persona e persona sia un evento legittimo per i tempi, che sono appunto tempi da lupi.
Tutto può essere. Ma forse la crisi, la violenza, la fame, la volgarità, il rispetto che si assottiglia e diventa carta straccia nascono dai lupi. Che sono arrivati prima.
Io resisto. E come me resistono tanti altri che, con mani maldestre, ogni giorno, piantano una goccia ovunque. Io ho fatto una pecorella come un dono per l’innocenza più lieve e forte che c’è. Infatti, mi è venuta senza una gamba. Ho fatto una pecorella disabile.