Dobbiamo ricominciare a parlare dei giudici e con i giudici, in piena libertà, evitando due inciampi: l’adorazione fideistica e l’opposizione obbligatoria. Siamo tutti vittime di un riflesso condizionato. La nostra coscienza, allevata mediaticamente, ha bisogno di schierarsi dalla parte degli avversari delle toghe o dei loro difensori, in ogni controversia. Il punto che tenti di cogliere la nota grigia tra il bianco e il nero subisce la bolla dell’eresia.
Dobbiamo discutere serenamente – dribblando le grida al complotto e la soddisfazione malevola – di ciò che è accaduto a Nino Di Matteo che, per scelta del Csm, non andrà a ricoprire uno dei posti disponibili alla Procura Nazionale Antimafia: l’organo di autogoverno della magistratura gli ha preferito tre colleghi “meno noti” (così si leggeva nel lancio dell’agenzia, come se la notorietà facesse punteggio).
E’ doveroso riconoscere al pm della ‘Trattativa’ le sue qualità: Nino di Matteo è un uomo onesto, che lavora al meglio. Non può esserci elogio più opportuno nella sobrietà. Ma pare altrettanto obbligatorio cogliere il dato sotto gli occhi di tutti: accanto alla toga del magistrato è fiorita la retorica chiassosa dell’antimafia delle certezze che ha sostituito la ricerca della verità. Una fioritura che può avergli, suo malgrado, nuociuto.
L’antimafia delle certezze, infatti, non cerca quasi mai la verità, pretende una conferma dei suoi pregiudizi. Non ama i processi che servono per mettere insieme i fatti e fornire sostanza logica e concreta alla prova dei reati; preferisce le piazze ai tribunali, lì dove celebra il suo atto d’accusa alla storia.
E vorrebbe vedere sul rogo uno dei migliori Presidenti della Repubblica, responsabile di nulla, ma ritenuto colpevole di tutto. E immagina un oscuro complotto, talmente impenetrabile, da offuscare l’individuazione di differenti complotti eventualmente esistiti. E ha bisogno di non trovare niente, di chiamare in causa nuovi mandanti, ulteriori colpevoli, rinnovate iniquità, perché questa maionese impazzita di innocenti suggestioni e ciniche carriere ha costruito la propria fama sulla reiterazione di una domanda sempre eguale. Una risposta sensata, giuridicamente misurabile, storicamente collocata, semplicemente, la demolirebbe.
Intanto, l’ha demolita il Csm nel momento in cui ha stabilito che sono altre valutazioni, non la retorica di sfondo, a orientare le scelte importanti. Di Matteo non ha torto quando dice: “Sono molto amareggiato, deluso e preoccupato. Amareggiato, perché non sono stati sufficienti più di venti anni di lavoro dedicati ai processi di mafia a Caltanissetta e a Palermo. Deluso, perché nella relazione della commissione che ha indicato gli altri colleghi non ho rintracciato nessuna censura critica al mio operato. Mi chiedo perché non sia stata valutata un’anzianità che è pari al doppio degli altri”.
Eppure, questo giudice che si impegna strenuamente nella ricerca della verità e che corre serissimi rischi, dovrebbe forse ragionare anche sul suo essere diventato – nonostante tutto – una figurina nell’album degli antimafiosi urlanti, una vittima dell’opinione pubblica più estremista e divisiva, uno strumento di lotta e non soltanto un simbolo circondato dal sostegno e dall’affetto degli uomini liberi.