Una verità parziale, un’altra cestinata perché i processi si basavano su prove inesistenti e una voragine di bugie. Ventiquattro anni dopo la strage di via D’Amelio, nel giorno in cui si farà a gara per autodefinirsi amici ed eredi di Paolo Borsellino, c’è una sola certezza: il magistrato ammazzato dalla mafia è un martire senza giustizia.
“Se fosse vero quanto emerso finora su eventuali manipolazioni da parte di uomini dello Stato vorrebbe dire che mio padre è stato ucciso due volte. Ciò che mi indigna sono i tanti non ricordo portati qui, in aula, da appartenenti allo Stato”, ha detto Lucia Borsellino, figlia del giudice ucciso nel ’92, deponendo alcuni giorni fa davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta nel quarto processo per la strage. Perché siamo giunti al quarto processo, mentre un quinto è in corso a Catania e probabilmente ce ne sarà un sesto.
Pochi giorni fa davanti alla Corte d’appello di Catania si è aperto il primo giudizio di revisione. Nel 2011 sei ergastolani sono stati scarcerati. Undici persone sono state ingiustamente condannate per l’eccidio. Si tratta di Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Gaetano Scotto, Gaetano Murana, Salvatore Tomaselli, Giuseppe Orofino e i pentiti fasulli Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura.
Dalle bugie dei collaboratori di giustizia si salvano gli ergastoli del processo ter, a cominciare da quello inflitto a Bernardo Provenzano. Tutto il resto è da rifare. È stato un altro pentito, Gaspare Spatuzza, a dire che lo Stato aveva creduto a due bugiardi. Bugiardi che, però, negli anni avevano ammesso di avere mentito sotto tortura dei poliziotti del gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” coordinato dal prefetto Arnaldo La Barbera. Non sono stati creduti anche perché, ad onore del vero, si è assistito a ritrattazioni e ritrattazioni delle ritrattazioni. Altri pentiti, la cui attendibilità è stata certificata, avevano messo in guardia i pubblici ministeri. Stessa cosa gli avvocati di alcuni imputati, i primi a dire che le ricostruzioni di Scarantino non stavano in piedi.
Bugie, processi sbagliati e la variabile del tempo che passa. Ecco servito il guazzabuglio che nelle scorse settimane si è arricchito con le udienze dei “non ricordo”. Non hanno ricordato, infatti, episodi decisivi di quella stagione i funzionari di polizia che facevano parte del gruppo – La Barbera è morto – convocati dalla Corte d’assise che sta processando per calunnia Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, mentre Salvo Madonia e Vittorio Tutino rispondono di strage. Al ritorno dalle ferie ci sarà la sentenza. I pm Gabriele Paci e Stefano Luciani sono ripartiti dalle macerie dei processi del passato.
Quando ormai il dibattimento era prossimo alla conclusione ecco il colpo di scena. Il sostituto procuratore generale di Palermo, Nico Gozzo, che quando era pm a Caltanissetta ha indagato sulle stragi, ha incontrato Gioacchino Genchi, ex poliziotto del gruppo di La Barbera, e ha fatto una relazione di servizio perché Genchi gli ha parlato di alcuni agenti costretti a prendere per buone le rivelazioni di Scarantino. Solo che Genchi ha negato di avere parlato di questo argomento con il magistrato, sostenendo che si sia trattato di un’incomprensione fra persone per bene.
A completare il quadro c’è la nuova inchiesta sui possibili depistatori e cioè i poliziotti che avrebbero indottrinato Scarantino. Insomma, la luce della verità si intravede appena. E dire che, senza per forza pescare nel torbido, oggi si sarebbe potuta raccontare una storia diversa se solo si fossero aperti da subito gli occhi di fronte alle bugie di Scarantino. Si sarebbe già risposto da tempo alla domande delle domande: ci fu malafede o la fretta di trovare subito un colpevole da offrire all’opinione pubblica annebbiò la vista di decine di magistrati, inquirenti e requirenti, che hanno dato credito alle bugie? E invece il tempo è una variabile che pesa come un macigno e fa di Borsellino e degli uomini morti assieme a lui dei martiri senza giustizia.