Mafia, rischio scarcerazioni| Schiacciati dal sistema giustizia - Live Sicilia

Mafia, rischio scarcerazioni| Schiacciati dal sistema giustizia

Quattordici imputati potrebbero tornare liberi. Ultimo esempio di una giustizia slegata dalla realtà.

PALERMO-IL CASO
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PALERMO – Il rischio scarcerazione di quattordici imputati condannati per mafia ed estorsione è solo l’ultimo esempio di una giustizia troppo lenta per essere giusta. È solo una bruttissima copia di quella prevista dal codice di procedura penale. Perché c’è una distanza nettissima fra la giustizia dei manuali e quella reale che viene amministrata dai giudici.

Ricorsi, controricorsi e di nuovo ricorsi: il processo ai clan del mandamento mafioso palermitano di Porta Nuova e Bagheria è una sfida fra accusa e difesa. In 14 lasceranno il carcere il prossimo 19 febbraio, a meno che la Corte d’appello non sospenda i termini di custodia cautelare, dopo che il Tribunale del Riesame ha bocciato un provvedimento analogo anche se su principi diversi. Tutto nasce dalla lentezza con cui il giudice di primo grado Sergio Ziino ha scritto le motivazioni della sentenza. C’è voluto più di un anno. Al giudice per l’udienza preliminare va dato atto, però, che si tratta di un processo enorme, non tanto per il numero degli imputati – ventiquattro in totale – quanto per la mole dei capi d’imputazione. Sono gli stessi addetti ai lavori che lo definiscono un processo “mostro”. Ed infatti si è sempre caratterizzato per la corsa contro il tempo.

La sentenza di condanna, nel 2015, arrivò ad un’ora dalla scadenza dei termini di custodia cautelare. Allora fu scongiurata la scarcerazione di massa che oggi è un rischio concreto. L’unica possibilità è aprire in fretta il processo d’appello. O meglio, considerare l’impugnazione delle scarcerazioni come un atto che anticipa il dibattimento di secondo grado e nella cui fase si possono congelare i termini. La Procura generale ha investito della faccenda La Corte d’assise d’appello, che ha fissato l’udienza per il prossimo 14 febbraio.

La questione è un’altra: il ritardo nel deposito della motivazione era inevitabile per la difficoltà del processo oppure si poteva vigilare e intervenire prima in un ufficio, come quello del Gip-Gup di Palermo, segnato per lunghi mesi da una forte carenza di personale? Una domanda a cui dovranno dare una risposta gli ispettori che il ministero ha annunciato di inviare. Chissà come finirà. Qualche anno fa Corte d’appello di Palermo e Cassazione litigarono per la scarcerazione di quattro favoreggiatori di Provenzano. Si scoprì che la data di scadenza dei termini era stata calcolata e fissata con un mese di ritardo. E così quando il processo arrivò in Cassazione erano già scaduti.

Si sbaglia, errare è umano. Il problema è quando sono le carenze organizzative e strutturali del sistema giustizia a provocare gli errori. Errori evitabili, che diventano imperdonabili da qualsiasi prospettiva si guardino. Il codice di procedura penale prevede che subito dopo avere sottoscritto il dispositivo della sentenza il giudice rediga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e diritto su cui la sentenza è fondata”. Quando non può farlo in maniera stringata e contestuale il codice gli concede quindici giorni, che possono diventare al massimo novanta nei casi di processi complessi per il numero degli imputati, la gravità e la mole delle imputazioni. La motivazione contestuale è praticamente sconosciuta nei Tribunali italiani. Forse non conviene neppure agli avvocati che avrebbero meno tempo per preparare i motivi di appello.

Esiste infine un’ulteriore possibilità: di fronte a un processo “mostro” il giudice può chiedere di sforare di altri novanta giorni il termine per il deposito delle motivazioni. In questo caso, però, di norma dovrebbero suonare dei campanelli di allarme procedurale. Si è davvero di fronte a situazioni eccezionali, tanto che i vertici dell’ufficio dovrebbero attivarsi con il Csm per esonerare il giudice da ogni altra decisione. E qui la macchina si inceppa, perché lo stesso giudice, il più delle volte, ha sul proprio tavolo una sfilza di fascicoli che non possono essere rinviati. Il problema, dunque, diventa di sistema e la speranza che un’ispezione ministeriale possa risolverlo appare davvero lontana.

Si resta schiacciati. Da un lato c’è il rischio che boss e picciotti, come nel caso di Bagheria, tornino liberi di circolare non lontano dai quei commercianti che hanno avuto il coraggio di denunciarli. Dall’altro, però, non bisogna dimenticare gli imputati, spesso anche detenuti, che hanno il diritto di avere certezze sui tempi di celebrazioni dei processi che non possono diventare infiniti. Infinito, ad esempio, è quello a carico di Calogero Mannino per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. In primo grado è iniziato nel 2013. Dopo un anno di attesa per le motivazioni dell’assoluzione, decisa nel 2015, l’appello deve ancora iniziare. E dire che doveva essere, per scelta dell’imputato, un giudizio abbreviato.


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